Brand militantiPerché molte aziende sostengono le proteste antirazziste degli ultimi giorni

Da Nike a Twitter, da Netflix a Disney, numerosi marchi si sono schierati idealmente al fianco dei manifestanti. È una scelta politica, ma c’entra anche il mercato, e non è detto che sia una mossa vincente

Kerem Yucel / AFP

«For once, don’t do it». Nike ha scelto di schierarsi politicamente al fianco delle proteste in corso negli Stati Uniti. Le manifestazioni scatenate dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis hanno coinvolto tutta l’America e hanno avuto risonanza globale. L’azienda di Beaverton, ancora una volta, si è unita al movimento antirazzista, arrivando a ribaltare il suo claim più famoso: da «Just do it» a «Don’t do it».

Nike non è l’unica azienda che ha scelto di prendere una posizione sull’argomento. In un post condiviso sui suoi canali social, Netflix ha scritto: «Tacere è essere complici. Black Lives Matter. Abbiamo una piattaforma e abbiamo il dovere di schierarci a sostegno dei nostri colleghi, impiegati, creatori e artisti neri».

Twitter ha cambiato la descrizione del suo profilo lasciando soltanto l’hashtag #BlackLivesMatter e cambiando il colore del logo da azzurro a nero. Nel mondo della moda molte aziende hanno dimostrato attenzione alle proteste: Prada ha condannato ogni forma di discriminazione e ricordato il lavoro del suo “Diversity and Inclusion Council” contro le ingiustizie basate sulla razza.

Il direttore creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli , ha pubblicato sul suo profilo Instagram il video del 12enne Keedron Bryant che canta il suo dolore. Gucci ha ripreso un post dell’attivista e artista americana Cleo Wade, una scritta arcobaleno che inizia così: «Il mondo ti dirà: dobbiamo porre fine al razzismo».

E poi ancora TikTok, e Walt Disney con tutti i suoi marchi – Pixar, Star Wars, Espn, Marvel – e moltissimi altri brand si sono aggregati alle voci di protesta, proprio come le star del cinema, gli atleti, e gli artisti in tutto il mondo.

«Quando ci sono dei movimenti rilevanti – spiega Sandro Castaldo, professore di Trade marketing & Channel management alla Bocconi – accade spesso che le aziende si schierino. A maggior ragione in questi giorni, visto che il tema delle proteste rientra nella categoria Diversity and Inclusion (D&I), come il gender gap, la religione o il contrasto alla povertà. Il D&I è un elemento molto importante per il posizionamento delle imprese. In questo momento forse più forte anche del tema ambientale, che resta sempre molto attuale».

Prendere una posizione non è solo una scelta virtuosa, è anche una strategia di mercato: significa creare engagement con una parte della popolazione. «Un brand percepito come inclusivo dal pubblico ottiene in cambio un indice di soddisfazione molto maggiore rispetto alla concorrenza, banalmente anche nella propensione all’acquisto quando si confrontano due prodotti su uno scaffale», spiega Castaldo.

Il rovescio della medaglia è che, con una politica sempre più polarizzata, dove le posizioni sono sempre meno sfumate e sempre più vicine agli estremi, si finisca per perdere una fetta di mercato. È probabilmente per questo che negli anni ‘90 Michael Jordan avrebbe pronunciato una frase poi divenuta il manifesto del suo scarso interesse per l’impegno politico e sociale: «Republicans buy sneakers, too», anche i repubblicani comprano le scarpe, per giustificare il suo mancato sostegno ad Harvey Gantt, candidato afroamericano del Partito democratico per un seggio al Senato in Nord Carolina nel 1990. Tradotto: schierarsi fa male al business.

Non tutte le imprese si comportano allo stesso modo. Nel 2011 Champion ha interrotto la sua partnership con Rashard Mendenahall, giocatore di football americano che aveva espresso la sua indignazione in seguito alle esultanze di molti statunitensi per la morte di Osama bin Laden, stracciando un contratto che sarebbe durato altri quattro anni.

Per Nike, invece, il brand activism sembra essere diventato un segno di riconoscimento, e il board dirigenziale punta sempre più a rafforzare l’immagine del marchio.

Nel 2018 l’azienda del “baffo” ha scelto Colin Kaepernick per il trentennale della celebre campagna “Just Do It”, accompagnata da un messaggio molto intuitivo pronunciato proprio dall’ex quarterback: «Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto». Una manifestazione di sostegno a un atleta diventato famoso a livello mondiale per la sua protesta contro i maltrattamenti subiti dalla comunità afroamericana, protesta che gli è costata la carriera.

Due anni prima Nike aveva pubblicato uno spot che omaggiava Chris Mosier, il primo sportivo transgender con un posto nella Nazionale statunitense di duathlon ai Mondiali.

«La cultura aziendale – spiega ancora il professor Castaldo – si deve costruire un passo alla volta. Nike fu colpita dallo scandalo dei palloni cuciti dai bambini in Asia, probabilmente quello è stato uno stimolo per un impegno maggiore in questo campo».

Gli slogan devono coincidere con i valori dell’azienda, altrimenti fare proclami diventa controproducente: non basta un post su Instagram o un tweet, bisogna dimostrare che certi valori siano nel dna.

È un riferimento ai tanti brand che in questi giorni si stanno unendo al coro per “lavare” (il termine che si usa in gergo è l’inglese washing) la propria immagine. Come è successo alla National Football League (Nfl), che dopo la morte di George Floyd ha pubblicato un messaggio di cordoglio, attirando le critiche di chi la accusa di essere una lega fatta da conservatori, maschi, bianchi, che non fa nulla per contrastare comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze.

Stesso discorso per Amazon o L’Oreal. Come ha scritto Alex Jung in un articolo pubblicato su Vulture: «Solo un paio di mesi fa Amazon ha organizzato una campagna diffamatoria e licenziato uno dei suoi lavoratori, Chris Smalls, per aver chiesto condizioni più sicure sul luogo di lavoro. Mentre L’Oreal ha interrotto il suo rapporto con la modella Munroe Bergdorf dopo che questa si era schierata contro la marcia di suprematisti bianchi a Charlottesville nel 2017. Una parola che descrive tutto questo è ipocrisia».

Il brand activism negli ultimi anni è diventato sempre più frequente, rendendo difficile una distinzione tra aziende virtuose e quelle che vogliono solo cavalcare l’onda dell’entusiasmo popolare con degli slogan di plastica.

«L’aspetto positivo – conclude il professor Castaldo – è che per paura di risultare incoerenti molte aziende finiscano per adeguarsi agli slogan che pronunciano. In questo modo la competizione per il brand più virtuoso si sposta sul piano concreto, e non solo a parole».

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