C’è stata un’epoca nella quale gli Stati Uniti si diedero come missione quella di scrollarsi di dosso l’immagine di Paese imperialista e con un pressante problema di razzismo interno istituzionalizzato, che minava profondamente il suo ruolo di paese guida delle democrazie occidentali.
Negli anni Sessanta, la presidenza Kennedy si propose di restaurare un prestigio americano nel campo dei diritti umani, in casa e all’estero. Un Paese giovane, liberal, che avrebbe fatto di tutto per integrare le minoranze etniche troppo a lungo oppresse. E un giovane avvocato rappresentava al meglio questo modo di vedere il mondo: Ramsey Clark era un brillante giurista, figlio di un giudice della Corte Suprema che lavorava al Dipartimento di Giustizia, dedicato alla promozione dei diritti civili per gli afroamericani.
Come mai in tarda età lo stesso liberal kennediano diventò un difensore dei più accesi nemici dell’America, gente del calibro di Saddam Hussein, Slobodan Milosevic e Muhammar Gheddafi? La chiave è nel periodo della guerra del Vietnam.
Il suo collega di amministrazione Dean Rusk, all’epoca, non lo ricorda così antiguerra, anzi, durante la campagna per la rielezione di Johnson nel 1968, accusò il movimento contro la guerra di essere infiltrato dai comunisti e perseguì con particolare vigore cinque attivisti di Boston. Forse è stato in quel momento che è iniziato una sorta di pentimento che lo ha portato a criticare la politica americana in Indocina, e a correre per il Senato a New York raccontando ai lavoratori delle fabbriche che producevano armi che sarebbero dovuti rimanere senza lavoro. Non proprio una grande strategia.
E infatti il suo avversario repubblicano Jacob Javits vinse. Nonostante quello fosse l’anno del Watergate.
Nel 1980 ci fu un nuovo passaggio cruciale per la sua trasformazione politica: un viaggio in Iran, non autorizzato dall’amministrazione Carter, nel quale criticò lo stesso presidente per il sostegno dato al regime dello Shah e per averlo definito il suo governo «un’isola di stabilità» in un Medio Oriente turbolento durante un discorso tenuto a Teheran il 31 dicembre 1977. Il presidente Carter si infuriò. E Clark divenne in quel momento un oggetto prezioso per diversi nemici dell’America: primo fra tutti il futuro presidente della Liberia Charles Taylor, fuggito nel 1984 (all’epoca era il capo della sicurezza nazionale) negli Stati Uniti con un milione di euro rubato al suo governo.
L’argomento di Clark per farlo liberare fu: il suo crimine è politico, pertanto andava rispedito in Liberia e il trattato di estradizione era decaduto. Ma Taylor non aspettò: evase misteriosamente dal carcere di Plymouth, Massachusetts, il 15 settembre 1985. Negli anni successivi Clark divenne ambitissimo da ogni tiranno antiamericano: difese Saddam Hussein dall’attacco “illegale” del 1991 così come nel 2003, rimanendo con lui fino alla fine, tanto da farsi cacciare dall’aula dai giudici iracheni che condannarono a morte l’ex dittatore per crimini contro l’umanità.
Divenne una specie di Saul Goodman per criminali di guerra come Slobodan Milosevic, da lui difeso anche al suo funerale nel 2006, definendolo come «un leader coraggioso che aveva avuto il coraggio di affrontare un Paese più forte del suo».
Fu un apologeta della Corea del Nord e degli autori del genocidio ruandese. Alla famigerata conferenza di Durban sul razzismo del 2010 definì Israele quale stato «razzista». Ma non si rifiutò di assumere la difesa di due criminali nazisti come la guardia di lager Karl Linnas e Jakob Reimer, che aveva ucciso ebrei nel ghetto di Varsavia. Per usare le parole di Christopher Hitchens, «Clark arrivò a pensare che gli Stati Uniti erano la maggior fonte di male presente nel mondo» e che quindi ogni nemico meritasse il suo aiuto e la sua difesa.
Ora che è morto all’età di 93 anni, nessun esponente di quello che lui chiamava «sistema monopartitico americano» ne ha pianto la morte. Anzi, nel 2014 non partecipò alla celebrazione del cinquantenario della legge sui diritti civili approvata dall’amministrazione Johnson, anche se aveva contribuito a scriverla.
Nessuno voleva più aver nulla a che fare con il difensore degli Stati canaglia, che i dittatori agitavano come un pezzo di argenteria rubato nel tempio della democrazia americana e che per questo, per il solo fatto di essere un ex procuratore generale statunitense che li difendeva a spada tratta, avrebbe dimostrato la bontà delle loro ragioni.
Nonostante la scarsa solidità di questo discorso, Clark divenne citatissimo nei circoli antiamericani di ogni colore. Ma perse qualsiasi credibilità in patria. Sarebbe stato il caso più clamoroso di ex funzionario americano che contribuì a nuocere al proprio Paese. Ma ancora non sappiamo quali possano essere le intenzioni di Donald Trump per il prossimo futuro.