Il paese reale è quello che vedi o quello che ascolti? Ieri, ad accendere la radio, l’Italia – invece di lavorare, disperarsi, o innamorarsi – faceva la fila dall’alba, in emozionata attesa della riapertura dei bar e dei ristoranti. Ad andare al ristorante, l’Italia pareva temporaneamente assente. I tavoli all’aperto – dehors, come li chiamano quelli che si sentono eleganti – erano mezzi vuoti.
Certo, c’entrava la costante minaccia di pioggia, almeno a Milano: ordineresti un piatto di spaghetti che rischia d’allagartisi? A Bologna erano più pieno perché ci sono i portici: se piove non ti bagni comunque. Ma, ovunque, non è che se vira al brutto tu possa trasferirti a un tavolo interno, come facevamo nella vita di prima: si può mangiare solo fuori, fino a un certo punto.
(Da un certo punto in poi si potrà mangiare anche dentro, da un certo punto in poi forse non si dovrà neppure tornare alle dieci, ma io non sono mai riuscita a tenere a mente le scadenze del mio ciclo mestruale: figuriamoci quelle del piano pandemico. Tra l’altro non mi pare ci sia una data per l’unico cambiamento che bramo: ci sarà una data dalla quale si potranno far battute sul coprifuoco – quale coprifuoco, io alle nove sono a letto – senza che ti ricoprano di contumelie accusandoti di non badare alle disgrazie dei ristoratori?).
Per i clienti affezionati a un qualche ristorante – quelli che quindi sperano quello specifico locale non chiuda, e il cui gestore sperano quindi non venga gettato sul lastrico – la riapertura è stata drammatica. Uno dei pochi casi in cui è tollerabile che «come va?» non venga seguito dall’automatismo «bene, grazie»; ma, se dopo un anno di ’sto disastro il ristoratore ti risponde davvero come sta, ti metti a piangere nel piatto.
Sto benissimo, i camerieri hanno arretrati di cassa integrazione da dicembre. E perché? Non ci sono i soldi. (Rapido giro impressionista: nessuno di quelli che sarebbero in cassa integrazione la sta prendendo, tutti fermi a cinque mesi fa. Per fortuna non siamo un paese rivoluzionario, sennò la presa della Bastiglia non ce la levava nessuno).
Sto benissimo, i ristori ora si chiamano sostegni, ci dovevano dare il trenta per cento delle perdite del 2020, poi hanno fatto un po’ di aggiustamenti, e niente, i duecentosettantamila euro son diventati novemila. (Per fortuna non siamo un paese capitalista, sennò avremmo la Lehman Brothers della ristorazione, foto di gente che sgombera posti di lavoro, e negli scatoloni dei mestoli).
La sera andava un po’ meglio, quanto ad affollamento dei tavoli: continuava a minacciare pioggia, ma evidentemente l’umanità è più affezionata all’idea di cenare fuori che a quella di pranzare al ristorante. Affezionata alle proprie abitudini abbastanza da continuare a prenotare alle nove anche se alle dieci si chiude. Li capisco: da piccola i compagni di scuola mi irridevano molto perché mio padre pretendeva di cenare alle sette e mezza, era considerata una cosa molto poco à la page. I complessi delle elementari non si superano mai (quasi mai: io ceno alle sei).
«Ma tanto ci richiudono», borbottavano sconsolati ristoratori provati da un anno di apri e chiudi, apri ma coi tavoli distanziati, apri ma a cena no, apri ma solo per l’asporto, apri ma solo se hai i tavoli fuori, apri ma alle dieci strappi la forchetta ai clienti.
Che si lamentino loro è comprensibile. Quella che risulta bizzarra è la lamentela del cliente medio. Che sostiene tutto serio che sia da un anno che gli vietano di mangiare fuori. Amico cliente, ho le ricevute delle carte di credito come prova: a ottobre 2020 si cenava al ristorante, febbraio 2021 si pranzava al ristorante. Non è vero che ci hanno tenuto in clausura per un anno. È forse anche per questo che stiamo ancora così: perché una chiusura seria, di un anno, come i ristoranti newyorkesi senza spazi all’esterno, non l’abbiamo mai fatta. Abbiamo continuato a fare metà e metà, un po’ chiusi e un po’ aperti, un po’ scontentando tutti, un po’ come quelle che non prendono la pillola perché ingrassa e poi si meravigliano se il coito interrotto non è del tutto affidabile.
O forse no, forse avremmo lo stesso numero di contagi e di morti anche se avessimo chiuso tutto, non è il mio mestiere saperlo e comunque mancherebbe la controprova. Ma una cosa so: che non è vero che siamo al confino da un anno, e tuttavia ci percepiamo così.
Il metodo della disciplina autogestita – vi riapriamo ma state attenti, vi lasciamo allontanare più di duecento metri da casa ma non approfittatene – funzionerà forse con popoli che non si sentano speciali, ma certo non da queste parti. Come ha scritto Paolo Giordano sul Corriere: «Abbiamo dimostrato più volte fino a qui che l’inerzia della vita senza virus è più forte di ogni imposizione momentanea, che torniamo elasticamente a occupare tutto lo spazio sociale di prima appena ne abbiamo l’occasione».
Eppure ci percepiamo chiusi in casa da un anno. Abbiamo avuto mesi di ristoranti aperti, un’estate di vacanze come niente fosse (vi ricordate quando sembrava che in spiaggia saremmo dovuti stare tra separé di plexiglas?), trattative sfinenti per il coprifuoco che neanche quando la me quindicenne voleva andare in discoteca e i miei volevano fossi a casa per mezzanotte (quando in discoteca hanno sì e no cominciato a metter la musica), eppure ci percepiamo allievi d’un collegio militare senza libere uscite da un anno.
La percezione è tutto, caro lei. Ieri sera, nei ristoranti italiani, la gente sbuffava perché doveva finire di mangiare per le dieci. Ma, più ancora, sbuffava per un anno vissuto senza andare al ristorante. Inutile spiegarle che non era vero, che erano sì e no due mesi che i ristoranti erano chiusi: come fa il paese reale a crederti, se è perlopiù convinto d’aver avuto l’estate rovinata dai separé di plexiglas in spiaggia?