Mi sono ammazzata di giovedì. Certo, sono un po’ in ritardo con l’esecuzione, ma è come quando cambi residenza: vale da quando presenti la richiesta, mica da quando te la confermano. Quindi, benché non mi sia ancora buttata dalla finestra o tagliata le vene nella vasca, pretendo che come data del mio suicidio sia annotata giovedì 22, il giorno in cui seppi che il mio libro, il sabato successivo, non sarebbe più stato in classifica.
Il mio suicidio di giovedì è stato un sollievo per parenti e amici – che, diciamolo, non mi sopportavano più. «Io non ti riconosco, tu non eri così», mi ha detto un’amica uno dei precedenti giovedì, quando isterica dicevo di dover tenere il telefono libero perché il giovedì arrivano i dati di vendita e devo sapere se sono in classifica.
O forse me l’ha detto un altro giorno, una domenica in cui un qualche lettore mi notificava sui social d’aver finito il mio libro, e io allora domandavo agli amici se fosse indecoroso chiedere all’ignaro lettore se l’avesse tenuto lì un po’ o se l’avesse comprato in settimana: insomma, caro lettore, lieta che il tomo ti sia piaciuto, ma mi sembra più importante sapere se il tuo acquisto fa cumulo per la prossima classifica.
Caro lettore, dammi delle informazioni che attenuino il vuoto e l’angoscia dei quattro giorni tra la domenica, quando finisce la settimana in cui vengono rilevate le vendite, e il giovedì, quando quei rilevamenti divengono fogli excel coi numeri delle copie, fogli excel che ti svelano se il sabato sarai a Caserta o a via Po.
Cos’è successo, sei cambiata, canticchiavano amiche disperate, un po’ giovane Cremonini un po’ Cristina la bagnina – che squarciagolava quel verso durante il suo qualcosa di grande con Pietro Taricone, nell’autunno 2000, quando io ero ancora la me di prima.
La me di prima era come Francesco Piccolo a Caserta. In La scrittura o la vita (Rizzoli), Piccolo dice ad Annalena Benini: «Io stavo a Caserta, vivevo una vita completamente diversa, leggevo i classici o leggevo Moravia, vedevo la foto sull’Espresso di Moravia e pensavo che Moravia stesse su Marte: sapevo che esisteva ma che non mi avrebbe mai riguardato».
Per i cinque libri precedenti, io vedevo la classifica e pensavo che per stare in classifica una dovesse stare su Marte, o almeno essere Moravia; non mi avrebbe mai riguardato: io ero quella che aveva buone recensioni, mica tirature dignitose.
No, non è vero, sto commettendo un peccato di omissione. Nel 2012 avevo fatto un ebook che mi ero pubblicata da sola, e quello era stato addirittura primo nella classifica degli ebook, ma un ebook nel 2012 non era un prodotto dignitoso, e farsi un ebook da sola forse non è un gesto dignitoso neanche adesso, e quindi sebbene quello sia il mio libro più venduto è un po’ un figlio storpio di cui ti vergogni (sì, lo so che non ci si vergogna dei figli storpi: quanto siete letteralisti, mamma mia).
Non ero mai stata Hemingway in quella strepitosa lettera giovanile in cui dice che nei suoi racconti non c’è una parola che risulti incomprensibile a nessuno con un’istruzione minima, e in cui si vanta d’essere lodato dalle élite e letto dalle masse. Che invidia.
Non lo ero mai stata e non lo sono neanche ora, giacché – ve lo dico prima che apriate gli inserti culturali del sabato e sghignazziate del mio crollo, ve lo dico perché ho imparato da Nora Ephron che se la tua sconfitta la racconti tu poi gli altri possono riderne solo in quanto pubblico del tuo racconto – dopo cinque settimane sono uscita di classifica. È tutto finito. I rasoi fanno male, i fiumi sono freddi, quindi pensavo di optare per un’overdose di barbiturici. Ma in casa ho solo dello Xanax, che temo sia troppo blando.
«Ma ci sei stata un mese», ha puntesclamativato un’amica particolarmente insofferente quando giovedì le ho annunciato che erano arrivati i nuovi dati di vendita e non ero più tra i venti saggi più venduti d’Italia e tanto valeva guidare a fari spenti nella notte, solo che non avevo la patente e non avevo mai capito come funzionasse la frizione. «Cinque settimane, prego», ho risposto, così puntigliosa che lei mi ha subito liquidata come troppo vanesia per ammazzarmi davvero.
La prima settimana in cui sono stata in classifica, il Corriere mi ha sbagliato nome. Guaia Soncini, c’era scritto, ed era perfetto per molte ragioni. Perché si prestava a un sacco di battute. Perché c’era una pagina del libro in cui elencavo i modi in cui nella vita mi avevano storpiato il nome, e lo vedete che dico sempre la verità? E, soprattutto, perché il refuso mi permetteva di fotografare la classifica e pubblicarla sui social senza sembrare una sbruffona. Non era: guardatemi come sono figa, sono in classifica; era: guardatemi come sono sfigata, i giornali manco sanno come mi chiamo.
L’hanno sbagliato anche la seconda settimana, e a quel punto volevo mandare dei fiori al responsabile delle pagine culturali, l’unico al mondo che avesse capito quanto ci tenevo a quella vezzosità, quanto desideravo essere Guaia per sempre. E poi ormai era chiaramente un talismano. E infatti, appena l’hanno corretto, è iniziata la discesa verso l’oblio.
E adesso è inutile che tutti mi dicano che il bicchiere è mezzo pieno, che bisogna concentrarsi su cinque settimane di classifica (di cui tre persino col nome giusto) e mica sul viale del tramonto, che loro cosa dovrebbero dire che in classifica ci sono stati una settimana e ne sono subito usciti, che loro cosa dovrebbero dire che nessuno dei loro ultimi diciotto libri ci è entrato.
È tutto inutile, perché io non avevo mai provato la droga. Ora che so che posso essere Moravia sull’Espresso, voglio esserlo sempre. Se non posso esserlo, preferisco lasciarmi morire. Anche perché, diciamocelo: vuoi che da morta non diventi bestseller?