Secondo la psicologia, una delle migliori strategie per gestire le nostre emozioni è quella di dare loro un nome. Se sappiamo come chiamarle sappiamo con cosa abbiamo a che fare e quindi, per dirla in maniera pratica, anche come affrontare le diverse situazioni in cui queste compaiono. Questa attività che si chiama alfabetizzazione emotiva è tanto importante quanto utile poiché appunto ci permette di mettere in campo le diverse azioni funzionali a risolvere questo o quel dato momento.
Uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Affective Disorders, racconta come la pandemia, che ha colpito ufficialmente l’Italia come primo paese in Europa a partire dal 30 gennaio 2020, con la Lombardia quale regione più coinvolta, abbia fatto sperimentare agli operatori sanitari condizioni lavorative estreme.
Questi professionisti si sono trovati infatti non solo a dover gestire un enorme sovraccarico di lavoro, un’elevata esposizione al rischio biologico, veri cambiamenti nelle mansioni professionali, una pressante interazione con pazienti in condizioni critiche o complesse e l’assenza di terapie curative. Ma anche, a un livello più personale, hanno subito stati di privazione del riposo, delle attività ricreative nonché della vita familiare per prevenire il contagio.
Era del tutto provato che come accaduto durante i casi di epidemie precedenti quali SARS, Ebola, influenza 1N1, emergessero manifestazioni di ansia, depressione, disturbo da stress acuto, burnout e disturbo da stress post-traumatico. E per questo, tra le principali preoccupazioni delle autorità in materia di tutela del personale sanitario, non c’è solo la sicurezza fisica ma anche quella mentale. Ma se le esperienze pregresse rendevano prevedibile che nei sanitari potessero insorgere come minimo casi manifesti di stress post traumatico, non ne avevamo altrettante a cui attingere per capire quale fosse il nome giusto per definire quei sintomi che stanno manifestandosi nelle persone comuni quasi ovunque nel mondo.
Non potevamo chiamarlo burnout perché non sentiamo di avere esaurito le energie. E nemmeno depressione perché in generale non ci sentiamo senza speranza. Ci sentiamo solo un po’ privi di gioia e di scopo. E questo nostro nuovo sentire è il «languishing» che, secondo quanto scrive il New York Times, è l’emozione caratterizzante di questo nostro 2021.
Lo psicologo Adam Grant, autore di «Think Again: The Power of Knowing What You Don’t Know» e ospite del podcast «TED WorkLife», lo definisce come un senso di stagnazione e di vuoto che ci fa arrancare nelle nostre giornate e vedere la nostra esistenza come attraverso un finestrino appannato.
In pratica, sostiene Grant, è successo che nei primi periodi di incertezza dati dalla pandemia il sistema di rilevamento delle minacce del nostro cervello, l’amigdala, se ne stava in allerta pronto al combattimento o alla fuga.
Poi, quando ha capito quali erano veramente le pratiche che ci aiutavano a proteggerci, per esempio l’uso della mascherina e della distanza fisica, probabilmente ha sviluppato quel senso di routine che ha alleggerito e assottigliato la paura la quale, a causa del protrarsi della crisi sanitaria ha lasciato il posto a una condizione cronica di «languishing» che non è altro se non il vuoto tra i due opposti dati da un lato dalla depressione e dall’altro dalla prosperità. Dunque, questo stato di languore è in sintesi l’assenza di benessere.
Il perdurare di questo stato crea il serio pericolo che potremmo smettere di notare l’attenuazione della gioia o dello slancio. Non ci si accorge di scivolare lentamente nella solitudine e si diventa indifferenti alla nostra stessa indifferenza. Allora cosa possiamo fare al riguardo?
L’antidoto di Grant è nel concetto chiamato «flusso», che consiste in quell’inafferrabile stato che creiamo quando siamo totalmente assorbiti da una sfida significativa e nel quale il senso del tempo, del luogo e del sé si dissolvono. Durante i primi giorni della pandemia, sostiene, il miglior indicatore di benessere non era l’ottimismo o la consapevolezza bensì il flusso, tant’è che le persone che si sono immerse di più nei loro progetti sono riuscite a evitare di languire e hanno mantenuto la loro prosperità prepandemica.
Dunque, come ho avuto modo di scrivere anche nel mio ultimo saggio «Gratitudine, La rivoluzione necessaria», la sfida per i prossimi anni è focalizzata sulla necessità di far fiorire attorno a noi e per noi sempre più prosperità e sempre meno ricchezza fine a se stessa, poiché la prosperità è una condizione relativa all’essere, e contiene necessariamente già anche la ricchezza, la quale è invece correlata all’avere. La ricchezza non comporta necessariamente anche la prosperità, mentre è valida con assoluta certezza la relazione inversa: dove c’è prosperità c’è sempre anche ricchezza, perché la seconda è lo strumento che consente alla prima di fiorire.
Affinché ciò avvenga, ciascuno di noi dovrà quindi lavorare su sé stesso agendo dall’interno della propria sfera di influenza, per evolvere a un livello superiore di idee, di emozioni e di azioni, contribuendo a generare amore, rispetto e soprattutto gratitudine.