Libertà negateCome i leader autoritari usano le riforme agrarie per consolidare il potere nelle zone rurali

La redistribuzione dei diritti di proprietà della terra è storicamente uno strumento usato per mettere in moto la macchina produttiva e lo sviluppo di un Paese, contrastare la disuguaglianza e riallocare risorse. Un articolo dell’Atlantic spiega come nella maggior parte dei casi si tratta di uno stratagemma dei governi per eliminare le élite rivali e mantenere il consenso nelle campagne

Lapresse

Per secoli la terra è stata la risorsa più preziosa di tutte. Le persone che possedevano terreno avevano a disposizione tutte le risorse naturali che questo offriva, dai metalli preziosi al legname e agli animali selvatici. Oppure potevano sfruttare quello spazio per coltivare e allevare animali domestici. La terra aveva anche un enorme potere simbolico: re, capi di Stato e leader politici a ogni latitudine usavano le loro proprietà terriere per affermare il proprio status.

All’inizio del XIX secolo la distribuzione della proprietà della terra nella maggior parte del mondo era altamente diseguale: secoli di feudalesimo, colonizzazioni e altre forme di appropriazione avevano fatto in modo che in gran parte del mondo il 5% più ricco possedesse una quota vicina al 90% delle proprietà terriere.

Di fatto, la maggior parte degli abitanti delle zone rurali guadagnava da vivere lavorando per grandi proprietari terrieri, in qualità di servitù, mezzadri o altre forme di sfruttamento. Gli unici gruppi che potevano sfuggire in qualche modo a questo destino erano alcune popolazioni indigene di aree più remote del mondo, e un piccolo numero di abitanti delle aree urbane che lavoravano come commercianti o artigiani. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento però questo schema è saltato.

«La crescita della popolazione ha posto una domanda senza precedenti sull’accesso alla terra. In tutti i continenti le persone hanno coltivato praterie e foreste abbattute, e le crescenti popolazioni di coloni hanno spostato le popolazioni indigene per appropriarsi delle loro terre. In molti luoghi, la terra è diventata scarsa». Lo ha scritto sull’Atlantic Michael Albertus, professore associato di scienze politiche all’Università di Chicago e autore del saggio “Property Without Rights: Origins and Consequences of the Property Rights Gap”.

L’autore dell’articolo spiega come la politica è entrata di prepotenza nella gestione delle proprietà terriere per provare a riequilibrare le cose. «È iniziata la ridistribuzione della terra: nel XX secolo più di un terzo dei Paesi del mondo ha sequestrato i possedimenti di grandi proprietari terrieri e li ha ridistribuiti ai senza terra o ai poveri. Un miliardo e mezzo di persone ha beneficiato direttamente di queste decisioni, che a loro volta portavano benefici a miliardi di persone in più».

Per capire che tipo di vantaggi può portare una riforma agraria ben strutturata e adeguata al territorio su cui incide bisogna guardare la Corea del Sud. Fino alla seconda guerra mondiale, il Paese era impoverito, segnato da logiche feudali che creavano disuguaglianze sociali ed economiche.

La guerra di Corea degli anni Cinquanta ha devastato in maniera quasi fatale l’economia della Corea del Sud, così il governo decise di rafforzare la sua autosufficienza affrancandosi dall’influenza giapponese e proponendo una radicale riforma agraria.

Il governo ha espropriato tutte le proprietà terriere più grandi di tre ettari; ha concesso la terra ad affittuari meno abbienti – molti dei quali si occupavano di piccole risaie – e li ha sostenuti con politiche agricole favorevoli e diverse forme di sussidi.

La prima e più evidente conseguenza riguarda la prospettiva futura che è stata data alle famiglie: per la prima volta nella storia coreana i contadini iniziavano a mandare i loro figli a scuola invece che nei campi. Nel giro di una generazione il Paese divenne più urbanizzato, ben istruito, retto da un’economia in forte espansione.

Il modello coreano divenne un esempio da imitare e riprodurre anche altrove, in Asia. Trasformazioni simili in Giappone e a Taiwan, con riforme agrarie nazionali. L’articolo dell’Atlantic inquadra il modello in questi passaggi: «Coltivare un piccolo terreno, utilizzare il surplus per costruire una produzione orientata all’esportazione, nutrire questi settori con l’aiuto delle istituzioni finanziarie tenute sempre al guinzaglio dal governo».

Ma non tutte le nazioni hanno avuto il successo della riforma sudcoreana. I leader autoritari di nazioni come Russia, Cina, Messico, Cuba e Zimbabwe hanno utilizzato i programmi di riforma agraria per annientare i nemici interni – i grandi proprietari terrieri – e ottenere sostegno politico nelle aree rurali. Ed è accaduto lo stesso in Europa orientale, nella sfera di influenza sovietica, e in Sud America nella seconda metà del secolo scorso.

«Le radici del sottosviluppo e dell’autoritarismo in molti di questi Paesi possono essere ricondotte all’allocazione arbitraria della proprietà terriere che ha seguito la riforma agraria. Gli autoritari che hanno distrutto le grandi classi di proprietari terrieri hanno anche cercato di rafforzare il proprio consenso nelle campagne: negando i diritti di proprietà, costringevano i beneficiari della terra a rivolgersi direttamente allo Stato per prestiti agricoli, crediti e sicurezza di base», si legge sull’Atlantic.

Ecco allora la differenza tra un modello che ha prodotto reali benefici, quindi virtuoso e funzionante, e uno solamente autoritario, esclusivo, aggressivo. Gli esperti di economie dei Paesi in via di sviluppo spiegano che spesso la riforma agraria diventa uno strumento per livellare le disuguaglianze e riallocare le risorse. E in Asia orientale (esempio Corea del Sud) è servita in più nazioni per creare delle vere e proprie potenze economiche.

Ma se non funziona sempre è per la forma autoritaria con cui si esprime il potere di portare avanti questi processi di nazionalizzazione. «I governi che hanno la volontà e la capacità di adottare importanti riforme agrarie – scrive Albertus sull’Atlantic – sono tipicamente autoritari. La maggior parte di loro cerca prima di tutto di rafforzare il proprio potere: preferirebbero controllare le popolazioni rurali piuttosto che vederle prosperare e diventare autonome. Quindi la riforma agraria diventa uno strumento conveniente per distruggere le élite rivali nelle campagne mentre si imbrigliano i lavoratori rurali nell’autoritarismo».

In particolare, se non sono soggetti a pressioni di potenze straniere o non abbiano particolare impedimenti, i governi autoritari cedono i diritti di proprietà sempre a condizioni particolari, mai troppo favorevoli per la popolazione, in modo da dover ridiscutere periodicamente i termini dell’accordo – potendo trattare da una posizione di superiorità, finendo con l’impoverire sempre più i loro cittadini.

L’Atlantic indica poi alcune differenze sostanziali tra i Paesi che hanno negato ogni forma di beneficio rispetto a quelli che hanno attuato riforme agrarie coerenti, virtuose e favorevoli per i cittadini: l’urbanizzazione è avvenuta più lentamente, gli abitanti delle zone rurali sono rimasti intrappolati nelle campagne con l’ascensore sociale bloccato, e il divario tra campagna e città è cresciuto di molto.

Allo stesso tempo, i leader autoritari di questi Stati hanno ottenuto vantaggi reali. Erano meglio attrezzati per prevenire le proteste sociali e in grado di utilizzare la campagna come contrappeso politico alle città. Molti politici in carica si sono dimostrati fin troppo disposti ad accettare risultati economici disastrosi per la loro gente e la crescente disuguaglianza pur di raggiungere i loro obiettivi politici. Cioè lo scenario che si sta verificando oggi nel Venezuela di Nicolás Maduro.

Secondo il professor Michael Albertus le cosiddette tigri asiatiche – Corea del Sud, Giappone e Taiwan – si sono trovate in condizioni tali da poter o dover gestire necessariamente in maniera corretta la loro riforma agraria: «Quei Paesi hanno affrontato minacce esistenziali dalla Cina e dalla Corea del Nord, quindi le loro riforme agrarie hanno cercato di stabilizzare rapidamente le campagne e prevenire gli appelli comunisti ai contadini elevando le loro condizioni economiche e sociali».

Sono riforme che dunque nascono soprattutto da una necessità specifica, che ha contribuito a produrre un miracolo economico trasformando le loro società. « Se quel miracolo possa essere replicato altrove – conclude l’articolo – dipende dal fatto che i governi dei Paesi agricoli possano sfruttare il potere statale per livellare le disuguaglianze nella proprietà della terra senza soccombere alla tentazione allettante di negare i diritti di proprietà e rafforzare il proprio potere».