Scusate se non parlo di Hunziker e Scotti che, santo cielo, si tirano gli occhi per fare i cinesi, e di come questo sia un grave attentato all’identità cinese e ai diritti umani (i diritti umani e i cinesi, guarda come te la appoggio lì).
Non lo faccio perché la delirante linea dialettica che è ormai passata, quella per cui conta solo l’identità, dice che bisogna ascoltare gli interessati, e se gli interessati sono offesi non c’è niente da discutere; ho deciso di adattarmi, e ho chiesto alla manicure (quella classista di Soncini pensa che le cinesi siano tutte manicure, guarda come te la appoggio lì).
Dice la manicure che, purché non torni la zona rossa e le richiudano il negozio, possono fare tutte le battute scontate che vogliono. Dice anche che non sa che programma sia: lei a quell’ora mi sta ancora mettendo lo smalto.
Accantonata la polemica più noiosa del mese, passerei invece a una bella soddisfazione: gli inglesi son più scemi di noi.
Idris Elba è forse la più rilevante star capitata al cinema e alla tv negli ultimi anni. È inglese, è nero, è quello di cui ciclicamente si parla come del prossimo James Bond (il mondo è pronto per un James Bond nero? Di sicuro è pronto per un James Bond figo, e fighi più di Elba è difficile trovarne in giro).
Molti anni fa, la Bbc gli propone il personaggio d’un detective bravo e dannato, grande intuito investigativo ma pessimo carattere e vita scombinatissima. Lui accetta, dice, soprattutto perché il personaggio non era stato scritto come un nero: era un investigatore cui accadeva d’esser nero. Segnatevi questo dettaglio, poi ci torniamo. Luther va in onda per cinque stagioni, tra il 2010 e il 2019 (in Italia si vede su Netflix).
L’altro giorno la responsabile per l’inclusività della Bbc, quella che in tre anni ha cento milioni di sterline da investire per rendere i programmi della Bbc meno bianchi, meno maschi, meno protestabili dai suscettibili, l’altro giorno questa signora, che si chiama Miranda Wayland, dichiara che Luther non va bene. Sì, è nero, ma non è davvero nero. Non mangia cibi esotici. Non ha amici neri. Non è autenticamente nero. Sintesi mia: non è un cliché culturale.
Giacché, che tu sia attore o detective o poetessa, non ti può accadere d’avere la pelle d’un colore senza che quel colore di pelle sia il tuo tratto distintivo. La traduttrice olandese di Amanda Gorman, quella cacciata a furor di popolo perché gravemente bianca, era stata scelta dalla stessa Gorman, che aveva valutato come una tizia che aveva vinto premi letterari giovanissima fosse in sintonia con la sua identità di enfant prodige. Ma la sua identità, proprio come Idris Elba, Gorman non se la può scegliere. Perché, se sei nero, sei un simbolo.
Esistono solo quelli, ormai, forse ci avrete fatto caso. È cominciata quando abbiamo iniziato a confondere il mettere like a una buona causa mentre stavamo sul divano con la militanza politica. Ed è finita mai. Prosegue ogni giorno.
Quando stilisti e attrici si fanno fotografare con scritto DDL Zan sul palmo della mano, e chissà se sanno che la Zan non serve assolutamente a niente, ma non importa: è un simbolo.
Quando parlamentari spiegano quant’è importante dare la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, e se chiedi se serva a fargli ottenere l’estradizione ti dicono macché, no, è solo perché è una cosa giusta, è solo perché c’è consenso popolare, è solo perché vuoi mettere le cose inutili e simboliche con quelle scomode e risolutive.
I simboli dovevano essere il traino del cambiamento, del miglioramento della società là dove un miglioramento ha senso desiderarlo – nei fatti, mica nei like – e invece sono diventati ciò di cui abbiamo deciso di accontentarci in luogo d’uno straccio di progresso.
Potevamo avere l’ascensore sociale, e invece ci siamo concentrati sui simboli: balconi e abolizioni della povertà. Potevamo avere la parità di genere, e invece ci siamo fissati sui simboli: se dirigi un’orchestra e hai una vagina, guai a te se ti fai chiamare «direttore». Potevamo avere una società multiculturale, e invece i non bianchi non fanno mai i bancari o i docenti universitari; in compenso, mentre sono la nuova classe operaia, non ci permettiamo di trovare buffi il loro accento o i loro tratti somatici o qualunque cosa prenderemmo in giro senza esitazioni se li considerassimo nostri pari.
D’altra parte il simbolo è instragramgenico, mentre sbattersi perché le condizioni di vita dell’umanità migliorino (quella roba che si faceva nel Novecento) non ti lascia neanche il tempo di farti la piega prima del selfie: capirete bene che non c’è gara.
In “Anna”, la serie di Niccolò Ammaniti che sta per andare in onda su Sky, molti dei bambini (quasi tutti) sono delle merde. È una scelta che può fare solo uno che trovi i bambini soggetti interessanti: renderli stronzi come gli esseri umani (l’opposto di quel che ha fatto il femminismo quando ha cessato d’essere utile, decidendo che le donne fossero tutte vittime e sante).
Da quando l’ho vista, non vedo l’ora che la vedano tutti, per osservare le reazioni dei sacerdoti dell’infanzia. Quelli che, come un sacerdote in una puntata, ritengono i bambini dei simboli – simboli di purezza, simboli d’innocenza, simboli di altruismo – e quindi giurano su una loro «innata bontà».
E intanto, bambine feroci come gerarchi ammazzano altre bambine, o amputano loro un braccio, così: per divertimento, per noia, per ribadire il loro predominio sul gruppo. Ma gli adulti mica possono accorgersene: sono concentrati sui simboli.