Che cos’hanno in comune il festival di Sanremo e l’insediamento di Joe Biden? Sono stati due cavalli di Troia, i cui achei sono una poetessa e un direttore d’orchestra, una mora e una bionda, due intellettuali vestite a festa che, senza bisogno di fare quasi nulla, hanno svelato le contraddizioni del femminismo come nessuno che non gli fosse interno avrebbe potuto fare.
Beatrice Venezi ha 31 anni, di lavoro dirige orchestre, e sul palco di Sanremo – dove si trovava come ospite – ha spiegato ad Amadeus che lei preferisce essere chiamata «direttore», non «direttrice». Apriti cielo.
È stata accusata d’un po’ tutto, dal patriarcato introiettato alla lesa lingua italiana. Non ricordo altrettanta agitazione quando donne che di mestiere scrivono poesie, Maria Luisa Spaziani o Cettina Caliò, hanno detto di preferire la dicitura «poeta» a quella «poetessa» – ma forse è perché non l’hanno mai detto dal palco di Sanremo, magari alla prossima edizione facciamo la controprova, vediamo se un «poeta, grazie» monopolizza giorni di polemiche.
Certo è bizzarro che, per l’ideologia postmoderna, se io domani pretendo d’essere chiamata Astolfo perché mi percepisco maschio pur avendo un quintale di tette, gli interlocutori hanno il dovere di chiamarmi Astolfo e se si sbagliano sia gravissimo; epperò se decido che voglio essere definita «scrittore» e non «scrittrice» questo diritto non mi viene riconosciuto.
È un tradimento della lingua italiana, hanno argomentato alcuni. I vocabolari esistono, certo; ma esistono anche i documenti d’identità, sui quali c’è scritto che io sono femmina e non Astolfo.
Amanda Gorman ha 23 anni, e quando è comparsa all’inaugurazione di Biden le più sane di mente tra di noi hanno notato che era in Prada (il suo cerchietto rosso il giorno dopo era esaurito in tutti i negozi on line: è sempre un buon giorno, quando Miuccia monopolizza la vita culturale d’un po’ tutti i continenti). Gli altri hanno ascoltato la poesiola che ha letto, hanno deciso che era nata una stella, e si sono precipitati a farla tradurre nei loro paesi.
E lì sono cominciati i guai.
Amanda si è scelta una traduttrice per l’Olanda. Una ragazza bionda come un direttore d’orchestra e giovane quasi come una poetessa. Marieke Lucas Rijneveld ha vinto l’edizione internazionale del Booker prize, epperciò Amanda aveva voluto lei: una che capisse cosa significasse essere un enfant prodige della letteratura. Che le fosse, cioè, affine nella sua essenza, che non sempre (quasi mai) sta nella pigmentazione o nei gameti. Ci sono donne bianche che non sanno citare a memoria Fassbinder, o che ritengono interessanti i bambini, o che sono vegane, e io con loro non ho proprio nulla in comune.
L’internet, però, non era d’accordo, e sappiamo che l’internet sa meglio di noi cos’è giusto per noi: il cancellettismo su Twitter ha armato un tale casino che la traduttrice scelta da Amanda, colpevole di non essere nera, ha dovuto rinunciare all’incarico. Rijneveld è persino “non binaria”, ovvero una che ritiene la biologia una convenzione borghese, ma neanche questo postmodernismo basta. Era pochi giorni fa, e sembrava il picco di scemenza dell’identitarismo. E invece.
E invece ieri è arrivata la notizia che il traduttore spagnolo di Amanda (stavolta pure maschio, capirai) è stato sollevato dall’incarico. Dice l’editore spagnolo che la richiesta è arrivata da quello americano: vogliono «un’attivista di origini afroamericane». Certo, ci si potrebbe intrattenere a commentare l’ottusità d’un paese convinto che gli afroamericani popolino l’Europa, ma c’è un dettaglio ancora più inquietante, ed è quanto gli americani siano affezionati al segregazionismo.
Che cos’altro è, dire che solo una nera può tradurre una nera, se non la trasposizione editoriale delle fontane separate, delle file separate, delle scuole separate? Da qualche parte Martin Luther King si sta chiedendo dove ha sbagliato, come hanno potuto capirlo così poco, quand’è che i militanti di sinistra son diventati tutti imbecilli.
La risposta migliore l’ha data proprio il traduttore spagnolo, quello cui hanno tolto l’incarico. Se non posso tradurre Amanda Gorman perché non sono una ragazza afroamericana, non posso neanche tradurre Omero, giacché non sono greco, né Shakespeare, non avendo mai vissuto nel diciassettesimo secolo.
Ma non c’entra, ribatterebbero gli identitaristi: è quando uno appartiene a una categoria oppressa che l’appropriazione culturale è tale. Quindi la poetessa (poeta?) che veste Prada e si esibisce in mondovisione è un’oppressa, l’ignoto traduttore è l’oppressore. Nel caso del direttore d’orchestra, gli oppressori sono gli autori di Sanremo. Che, si sono precipitati a dire i polemisti, le hanno imboccato quelle parole: mica sarà davvero lei, che preferisce «direttore», cosa vuoi che sappia, lei, che è pure femmina. Il femminismo postmoderno somiglia al D’Alema di Sabina Guzzanti, coi suoi sprezzanti «tu poi sei pure femmina»: si nutre della convinzione che una donna che non fa quel che dice la Gilead del femminismo è una povera scema, incapace di scegliersi una definizione o un traduttore. Senza gli achei magari non ce ne saremmo accorte.