Per un prodotto che raggiunge lo scaffale ce n’è un altro che non vedrà mai la luce. E, tra tutti quelli che arrivano sulle nostre tavole dopo numerosi test, alcuni non sopravvivono alla prova del nove. Le ragioni di un insuccesso possono essere molte – per i cibi un sapore che non incontra il gusto del pubblico, una distribuzione non azzeccata, talvolta un colore o un messaggio disallineato rispetto al prodotto – ma tutti i flop hanno in comune una cosa: il desiderio di non parlarne più.
Il fallimento è tabù e si porta dietro un corollario non facile da digerire fatto di tempo sprecato, reputazione offuscata e denaro speso inutilmente. Eppure, come scrive Steven Kotler, la creatività va spesso storta. «Anche questo fa parte del processo. I creativi falliscono e quelli veramente bravi falliscono spesso. Studio dopo studio dopo studio, le persone più brillantemente creative sono anche quelle con il maggior rendimento. Non è che abbiano idee creative migliori rispetto al resto di noi, è che hanno più nuove idee tra cui scegliere: questo significa che, lavorando a volumi incredibilmente alti, compensano un tasso di errore incorporato ed estremamente elevato. Quindi non solo la creatività richiede coraggio nelle proprie convinzioni (o immaginazione), ma richiede la volontà di morire per quelle convinzioni – ancora e ancora e ancora».
Non discutere, prova ancora diceva Beckett
Nel 2016 Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon, nella sua lettera annuale agli azionisti scrisse un vero e proprio elogio del fallimento: «Il fallimento e l’innovazione sono gemelli inseparabili. Per innovare bisogna sperimentare e se si sa in anticipo che le cose andranno bene non è una vera sperimentazione». E c’è anche chi ha raccolto in un museo una carrellata di insuccessi più o meno famosi, una sorta di Spoon River delle idee sbagliate, dalle lasagne surgelate di Colgate, una brand extension del colosso dell’igiene orale che avrebbe dovuto convincere i consumatori a lavarsi i denti dopo aver mangiato, alle Trump Steaks, le bistecche griffate Donald Trump ritirate dal mercato dopo soli due mesi, fino alla New Coke di cui parleremo tra poco.
Samuel West, che ha inaugurato il Museum of Failure a Helsingborg, in Svezia, nel 2007, cercava un modo per convincere la gente a parlare più apertamente dei propri errori: «Per imparare dal fallimento dobbiamo parlarne e il museo è un buon modo per farlo», ha raccontato. Parafrasando Tolstoj, West è convinto che le innovazioni di successo si assomiglino un po’ tutte mentre ogni fallimento è unico e contiene la chiave di ogni futuro progresso. Così ha trascorso un anno a cercare gli oggetti su eBay e a frequentare forum di discussione su Internet. Gli inizi non sono stati facili perché nessuna società voleva aiutarlo a procurarsi gli oggetti, ma ora che il museo ha guadagnato una certa fama stanno iniziando ad arrivare donazioni.
Fallimenti di successo: la Coke II
A metà degli anni Ottanta Coca-Cola lancia sul mercato una nuova versione della bibita più famosa al mondo, un esempio di come anche i colossi ogni tanto prendano le loro belle cantonate. Nei test di degustazione alla cieca, i consumatori dicono di preferire la New Coke rispetto alla bevanda originale e alla concorrente Pepsi, ma alla prova dei fatti la New Coke si rivela un disastro commerciale senza precedenti. Dopo soli tre mesi, centinaia di telefonate, 40mila lettere di protesta e risme di cattive recensioni la Coca-Cola ritorna alla ricetta classica. Al momento dell’annuncio del cambio di ricetta alcuni consumatori andarono letteralmente nel panico e stiparono casse di Coca-Cola in cantina, altri andarono in depressione per la scomparsa della loro bibita preferita; fatto sta che, di colpo, tutti si misero a parlare della Coca-Cola e si resero conto di quale importante ruolo avesse avuto nella loro vita. La New Coke venne lasciata ancora un po’ sugli scaffali con il nome di Coke II prima di essere definitivamente archiviata.
Altro esperimento divisivo fu la versione alla ciliegia, conosciuta anche come Cherry Coke, molto popolare negli Stati Uniti e in Inghilterra, molto meno in Italia dove dopo una breve apparizione a metà anni Ottanta è praticamente sparita dagli scaffali (ma in Rete si può ancora comprare).
Come dimostra il caso New Coke, non tutti i fallimenti vengono per nuocere. A volte gli errori innescano meccanismi virtuosi o stimolano i consumatori verso una maggiore appartenenza al brand: il passo falso della Coke II fruttò a Coca Cola un incremento di popolarità rispetto alla rivale Pepsi e le ricadute positive dopo il ritiro della Coke II provocarono una crescita di fatturato del 29 per cento.
A volte l’innovazione ha bisogno della benzina creativa del fallimento per farsi strada. A metà degli anni Novanta, un giovane americano inventa un servizio innovativo che permette di ordinare la pizza via internet, sfruttando il fax dei ristoranti. L’idea non decolla e la start up deve chiudere poco dopo. Il ragazzo in questione è Sergey Brin e, dopo la delusione cocente della pizza, insieme con Larry Page sfornerà un’idea che ha cambiato le nostre vite per sempre: Google.
Il pollo di Oprah Winfrey
La strada degli epic fail in campo alimentare è lunga e lastricata di buone intenzioni. Nel 2009 il colosso americano del pollo fritto KFC coinvolse Oprah Winfrey per il lancio del nuovo Kentucky Grilled Chicken. Durante il suo show la popolare conduttrice televisiva annunciò che gli spettatori potevano ottenere un menu omaggio tramite un coupon pubblicato sul suo sito. KFC aveva ampiamente sottovalutato ciò che accade quando si combina il potere di star come Oprah con l’amore americano per gli omaggi.
Il risultato di quella campagna promozionale fu uno tsunami mediatico senza precedenti: i clienti invasero i ristoranti in tutta l’America e KFC fu sommersa da milioni di ordini. Per la prima volta in assoluto KFC finì in brevissimo tempo le scorte di pollo e dopo essere stati citati in giudizio per non essere riusciti a mantenere le promesse fatte furono costretti ad annullare la promozione.
Solo da McDonald’s…
Anche McDonald’s è famoso per i suoi esperimenti non riusciti. Tra questi l’Hula burger, una fetta di ananas grigliata, condita con formaggio e infilata tra due fette di pane, un tentativo non riuscito di offrire alla clientela cattolica osservante un’alternativa vegetariana all’hamburger di manzo o pollo nel menu del venerdì.
Sul finire dei favolosi anni Ottanta il colosso americano sforna un’altra idea da archiviare, la Mc Pizza. Questa volta l’obiettivo è convincere i clienti a cenare da McDonald’s. Secondo i dirigenti, gli hamburger sono percepiti come qualcosa da mangiare al volo, dunque più adatti alla pausa pranzo, mentre manca una vera alternativa per il pasto serale e la pizza sembra perfetta. Dopo tre anni di studio, nel 1989 McDonald’s inizia a vendere le sue pizze in circa una ventina di negozi tra l’Indiana e il Kentucky per poi estendere il servizio anche ad altri Stati.
Il management però ha sottostimato due elementi chiave per il cliente tipo di McDonald’s, il tempo e il costo: la pizza per cuocere impiegava più tempo rispetto a un hamburger – un particolare che le persone non erano ben disposte ad accettare – e aveva un prezzo più elevato, due fattori che insieme determinarono l’insuccesso dell’operazione.
Gli Anni Settanta ovvero il medioevo gastronomico
Venendo ai disastri di casa nostra, l’account Instagram Storia della pubblicità ricostruisce la storia dei brand attraverso le réclame d’epoca: ogni giovedì Armando Vertorano, autore televisivo e divulgatore di pillole d’antan, tira fuori dal cappello veri e propri orrori partoriti dal copy di turno non proprio in giornata di grazia.
Scrive Vertorano: «L’Italia è da sempre patria della buona cucina. Ma c’è stata, anche per il Belpaese, un’epoca oscura, un medioevo gastronomico: gli anni Settanta. Chiunque abbia avuto in casa un libro di ricette di quegli anni ricorderà le oscene composizioni fatte con accostamenti improbabili a cui spesso si davano forme che ricordavano animali o vulcani in eruzione. Un’orgia di kitsch e gastrite, un inquietante carnevale alimentare che minacciava le nostre tavole e spaventava i bambini più impressionabili».
Due esempi su tutti ma la materia di studio è molto ampia. Il primo è la Rubra Cirio, un ketchup versato direttamente dal barattolo a guarnire una “insalata russa gelatinata con code di scampo lessate e ciuffetti di prezzemolo”, il tutto accompagnato da fettine di limone. «A questo punto viene spontaneo chiedersi: come siamo potuti sopravvivere a tutto questo senza estinguerci? O almeno senza trasformarci in una stirpe di Obelix e Gargantua?». Il secondo esempio è, forse, ancora più disturbante. Quello che a prima vista sembra un budino decorato da panna montata a uno sguardo più attento si rivela una preparazione a base di wurstel di suino, «forse la più brutta immagine di food che io abbia mai visto. L’antitesi dell’appetising. Una nuova icona. Conservatela! Con questa immagine potete torturare un art director o uno chef stellato».
Il Duplo alle fragole
Restando più o meno in quegli anni, tra i brand più attivi in fatto di sperimentazione già all’epoca c’era Ferrero. Lo snack Duplo nasce nel 1964 ma è ben diverso da quello che siamo abituati a vedere e a mangiare oggi. Il Duplo d’annata è una tavoletta di cioccolato e viene prodotto in due versioni: con la fascetta rossa, fondente, e con la fascetta azzurra, al latte. Nel 1970 Ferrero lancia le prime varianti: il ripieno alla nocciola, al pistacchio e alle fragole, un anticipo del mood “più latte meno cacao” (più frutta, in questo caso) che diventerà uno dei claim di successo dell’azienda di Alba. Ma fragole e cioccolato divorzieranno presto.
Philadelphia al cioccolato Milka
Dopo aver visto la mucca viola che, ferma in mezzo ai binari, guarda dritto in camera pensavamo che nulla potesse più stupirci e invece Milka ha superato se stessa e qualche anno fa eccola spuntare con un nuovo prodotto nel banco frigo del supermercato insieme al formaggio Philadelphia. Una crema spalmabile in bilico tra il dolce e il salato, una combo insolita che avrebbe potuto diventare l’alternativa estiva alla Nutella e che invece non ha convinto fino in fondo.
Essensis di Danone
Vi ricordate dello yogurt che rendeva bella la pelle? Era il 2007 e in televisione passava spesso uno spot con una giovane donna, inquadrata in primo piano, che dopo aver raccolto con la punta delle dita una goccia di crema bianca, la avvicinava al viso come fosse un prodotto di bellezza e poi, improvvisamente, portava il dito alla bocca. Lo yogurt in questione si chiamava Essensis e, «grazie a ProNutris, il complesso esclusivo di Danone», prometteva di «nutrire la pelle dall’interno».
Frutto di una ricerca durata due anni, con un pack rosa fucsia e gusti sfiziosi – lampone e melograno, pesca e albicocca oltre che bianco – a due anni dal lancio venne ritirato dagli scaffali dei supermercati. In un comunicato Danone spiegò che il prodotto «non è stato compreso» dal suo target di riferimento, le donne over 25. Le ragioni di un flop sono spesso più d’una, in questo caso gli analisti identificarono tra le ipotesi il prezzo piuttosto elevato, intorno ai 3 euro, il target molto ristretto – perché solo le donne over 25? – e, non ultimo, il messaggio: il fatto che uno yogurt renda belli non è stata evidentemente una ragione sufficiente a convincere le donne ad acquistarlo, anzi forse potrebbe aver creato confusione davanti al banco frigo.
Il mistero delle penne lisce
Durante il primo lockdown gli scaffali dei supermercati sono stati presi d’assalto. La scarsità di farina e lievito ha rivelato che moltissimi italiani stavano occupando il tempo libero in cucina, sfornando pane e torte; per contro, le poche cose che sono rimaste invendute hanno svelato impietosamente anche quel che non piace alla maggior parte di noi. Sullo scaffale della pasta spiccavano in quantità le penne lisce. In quanto sopravvissute all’accaparramento selvaggio si può dedurre che siano uno dei formati di pasta meno popolari e in Rete gira una petizione che chiede la loro abolizione. Chi non le ama sostiene che non raccolgano adeguatamente i condimenti e che siano «come un bacio senza lingua» anche se andrebbe fatta una eccezione per le versioni artigianali trafilate al bronzo. Ma la vera domanda è: se non ci fanno emozionare perché le troviamo ancora sugli scaffali del supermercato?