In nome del talk showPerché il conflitto tra populismo e garantismo condiziona la magistratura

I processi sugli omicidi di Marco Vannini e del Carabiniere Mario Cerciello Rega sono l’esempio dell’influenza che i processi mediatici hanno nelle decisioni dei tribunali. Il rischio è quello di una risposta emotiva dei giudici

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Nel  “Linkiesta Talks” dedicato alla giustizia ho posto una domanda a uno dei magistrati intervenuti sui possibili riflessi che le vicende Palamara ed Amara potrebbero avere in tema di politica giudiziaria. In particolare se ci sia il rischio di una risposta emotiva della magistratura agli attacchi e alle critiche che possa condurre inconsciamente nei processi a una difesa solidale delle ragioni delle procure messe sotto attacco.

La risposta è stata prudente ed elusiva, ma non radicalmente negativa, sicché a un osservatore che non voglia rifugiarsi solo nei propri preconcetti non resta che seguire la cronaca che in questi ultimi giorni ci hanno offerto due significative sentenze in casi eclatanti di cronaca nera  seguiti dalla pubblica opinione con particolare emozione: gli omicidi del giovane Marco Vannini e del Carabiniere Mario Cerciello Rega.

Due morti assurde con responsabili ben identificati da subito (il padre della fidanzata per Vannini, un giovane americano psicopatico nel caso del carabiniere) che però hanno creato polemiche e divisioni sia per l’individuazione delle ragioni dei fatti sia per il coinvolgimento a titolo di complici di un intero nucleo familiare (un caso senza precedenti al di fuori delle famiglie della criminalità organizzata) e di un amico dell’omicida (poi fotografato bendato in una caserma dei carabinieri mentre veniva sottoposto a interrogatorio).

In entrambe le vicende i comprimari sono stati tutti condannati quali compartecipi dei due omicidi, sebbene non avessero partecipato alle azioni criminali, per il fatto di non avere impedito l’esito letale di un ferimento compiuto da altri e per aver cercato di coprirne e attenuarne la responsabilità.

Nel diritto penale italiano l’istituto del concorso nel reato è particolarmente complesso e presenta sue particolarità e vaghezze che lo distinguono da quello elaborato dagli altri ordinamenti.

In Italia, e non a caso, il concorso può essere “morale” ed “esterno”: puoi non aver fatto nulla di concreto ma se non hai impedito, se hai taciuto, se non ti sei dissociato, insomma se in un qualche modo hai sottinteso e ammiccato, allora puoi essere un complice ed un colpevole a tutti gli effetti (chiedere ad Adriano Sofri: sette processi e una condanna definitiva per un complice silenzio a 200 km di distanza dal luogo dell’omicidio Calabresi), figurarsi se vieni a trovarti sul posto.

Se per la vicenda che coinvolge i due studenti americani è bene aspettare la prima sentenza per giudicare, sul caso Vannini si sono già avvicendate prima del definitivo verdetto di lunedì ben quattro sentenze con diverse ricostruzioni dei fatti e diverse interpretazioni giuridiche: la prima sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma aveva configurato un’ipotesi di omicidio colposo, condannando gli imputati a pene tra i cinque e i tre anni.

Dunque erano state emessi verdetti di colpevolezza che avrebbero già comportato gravi conseguenze per i destinatari a partire dalla sicura galera per il principale responsabile, ma ciò non è sembrato abbastanza alla pubblica piazza mediatica scossa dalla tremenda sequenza della madre della vittima che, udito il verdetto, aveva  urlato alla Corte tra un florilegio di insulti di parenti e di amici presenti in aula.

Quella offesa ai giudici (tra cui ironicamente anche l’apprezzatissimo autore di gialli ispirati ad un rigoroso seppur raffinato giustizialismo) ha fatto il giro di tutti gli organi di informazione e dei numerosi talk show radicando la convinzione che una sentenza di condanna ad anni di galera fosse l’equivalente di una scandalosa assoluzione. Aggiungo: senza che sul punto si sia levata alcuna voce a difesa di quei colleghi offesi per aver fatto il proprio lavoro, neanche dalla solitamente loquace Associazione Nazionale Magistrati.

Bertold Brecht, che ne capiva, ha detto che «è sfortunato un paese che ha bisogno di eroi» volendo dire che non si può pretendere il coraggio per svolgere il proprio lavoro, neanche dai magistrati che secondo l’opinione di un loro collega sindacalista «hanno molto sofferto per il concorso e ora vogliono stare comodi», non tutti per fortuna.

Può essere un giudice sereno quello che deve decidere sapendo che può essere insultato (nella migliore delle ipotesi) da un familiare, da una trasmissione televisiva, dal politico a caccia dei voti?

Certo, leggendo le sentenze della Corte di Cassazione che ha annullato il verdetto ritenuto inaccettabile dai talk show si rileva che i giudici successivi hanno condiviso la teoria cara alle arene televisive: un sordido complotto di famiglia che ha lasciato morire il povero Vannini, per far fuori l’unico scomodo testimone, non certo di una disgrazia accidentale ma evidentemente di chissà quale oscuro e preordinato piano criminale, di cui nessuno è in grado di dire ma cui tutti credono.

Di quanto contino gli umori della pubblica opinione è prova eloquente la scena registrata lunedì scorso al termine dell’udienza davanti al Palazzaccio, sede della Corte di Cassazione, dopo la conferma definitiva delle durissime condanne della famiglia Ciontoli: una vasta folla con striscioni ha salutato con un boato e cori l’uscita dall’edificio dei genitori della vittima.

Uno spettacolo indegno sia del dolore irreparabile dei genitori di Marco Vannini sia della tragedia umana che si era appena consumata nell’aula di giustizia cui mancava solo il tocco macabro di una qualche “iena” che mostrasse le teste mozze dei colpevoli per riportarci all’epoca del Terrore, ma che deve far riflettere proprio la magistratura, ove mai accarezzasse l’idea di cavalcare il populismo per riguadagnare il prestigio scosso dai casi Palamara ed Amara. È in fin dei conti un curioso dettaglio della storia che la prima sentenza della Cassazione sul caso Ciontoli, quella che annullò la decisione invisa ai talk, sia stata redatta dall’attuale presidente di Associazione Nazionale Magistrati.

Il noto libro di Sallusti e Palamara ha creato intorno alle toghe lo stesso clima di ostile populismo che in molte occasioni ha colpito gli imputati dei processi mediatici, un linciaggio etico che colpisce indiscriminatamente anche chi, tra i magistrati, da certe prassi e distorsioni si è tenuto lontano.

Ciò che sta avvenendo intorno alla vicenda Amara in fin dei conti è la riproduzione, all’interno della magistratura, del conflitto esterno tra populismo e garantismo, tra diverse visioni. Se è così, bisogna stare attenti che il crollo del vituperato “sistema” denunciato da Palamara e da Amara non trascini con sé quello della politica che è un valore da salvare, anche dentro le istituzioni della giustizia.

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