Dalemismo verghianoLa vecchiaia ha di buono che capisci quanto sia importante rivendicare di essersi arricchiti

Noi, che con la roba abbiamo il rapporto di chi ha fatto addizioni e sottrazioni per comprarla, non possiamo che essere solidali con Massimo D’Alema, a cui il malmostoso cane di Reichlin mordicchiava «l’unico paio di scarpe di valore che possedeva»

Photo by rupixen.com on Unsplash
L’estate più da ricca della mia vita la trascorsi con uno che, quando arrivavamo alla cassa del bar, mi diceva di pagare il cappuccino giacché lui non aveva soldi. Non: ne aveva pochi. Non li aveva proprio.
Li avevano avuti i suoi antenati, papi, principi, gente i cui cognomi davano il nome alle piazze di Roma, e quindi non c’era nessun bisogno che li avesse lui: qualunque arricchito si sentiva in dovere di mantenerlo.
Non servivano i soldi tranne che per quel mio capriccio mattutino di volere il cappuccino al bar invece che la lussuosa colazione sotto al pergolato offerta da qualche miliardario di prima generazione che si sentiva onorato d’avere ospite uno i cui trisavoli erano aristocratici. Non servivano i soldi perché l’aragosta la ordinava qualcun altro, il pieno alle macchine lo faceva qualcun altro, la frutta tagliuzzata che ci portavano all’ombrellone in riva al mare – acciocché non dovessimo incomodarci ad andare tra mortali al ristorante dello stabilimento – la pagava qualcun altro.
Ci sono due modi di vivere da ricchi, appresi quell’estate, e quello giusto era quello del mio allora fidanzato: vivere a scrocco. Quell’altro modo, quello che prevedeva il calcolo delle entrate e delle uscite, era pochissimo elegante.
Di nobiltà papalina saranno magari pieni gli ultimi appartamenti romani non ancora venduti ai creditori o affittati ai turisti, ma c’è un arricchito in ognuno di noi. Uno che compra cose che non si potrebbe permettere perché non ha cognomi abbastanza pomposi da rendere evidente che lui merita di vivere nel lusso. Uno che viene lasciato col conto dei cappuccini in mano. Uno che sa quanto costano le cose.
Sarei rancorosissima, se fossi in grado di ricordare gli accadimenti e gli esseri umani che li causano. Purtroppo ho la sindrome di Dory, la pesciolina di “Alla ricerca di Nemo” che si scordava le cose un secondo dopo che erano successe ed era pronta a stupirsene se ricapitavano due secondi dopo. Il che mi rende perfetta per fare il capo d’un qualsivoglia partito italiano, ma ora non divaghiamo.
Ho dimenticato fidanzati che ho trovato a letto con altre e fidanzati che m’hanno piantata per fax, fidanzati che stavano solo cercando di ingelosire una mia amica e fidanzati che non m’hanno detto per tempo d’avercelo piccolissimo. L’unico che non ho dimenticato è quello che non sapeva quanti sacrifici avessi fatto per comprare un divano che non potevo permettermi.
Era un divano di De Padova, e il fellone era lì comodo con la sua birra in mano, quand’ecco l’ha rovesciata. Mentre io urlavo come un animale condotto al macello, il tizio che non distingueva un divano Ikea da uno che hai comprato con sacrifici che neanche tua nonna in guerra, quel tizio del quale tredici anni dopo ancora voglio una morte lenta e dolorosa sbuffò «E che sarà mai», e asciugò col gomito il cuscino ormai indelebilmente macchiato.
Non dissi: certo che non ti sembra grave, tu a casa hai un divano da trecento euro, se si rovina ti costa meno ricomprarlo che smacchiarlo. Non dissi: visto che non ti sembra grave ti mando il conto a casa. Non dissi niente, e quindi sono tredici anni che porto rancore.
Noi che abbiamo un rapporto verghiano con la roba, e con le addizioni e le sottrazioni che abbiamo dovuto fare per comprarla, noi non possiamo non dirci dalemiani. Nell’intervista più malinconica della sua vita, a Tommaso Labate, Massimo D’Alema ricostruisce così la leggenda delle sue scarpe costose: «Una sera vado a cena a casa di Alfredo Reichlin, e il suo cane, decisamente malmostoso, le mordeva. Dissi ad alta voce a Reichlin di richiamare all’ordine il cane perché stava mordendo scarpe “che costano un sacco di soldi”. E qualcuno dei presenti lo raccontò ai giornalisti».
A parte la squisitezza dell’aggettivo «malmostoso», e la profonda bontà di D’Alema (se un cane mordesse la borsa di Hermès che chiesi un mutuo per comprare, una polpetta avvelenata non gliela leverebbe nessuno), la scoperta sconvolgente è che D’Alema non è così provinciale come ha sempre fatto credere al suo elettorato. Un vero provinciale – lo so perché sono una di loro – non avrebbe mai ammesso che quelle scarpe per lui erano un lusso che non si poteva permettere. Era, dice lui, «il grido di dolore di un poveraccio, che di fronte a quel cane correva il rischio di rovinare l’unico paio di scarpe di valore che possedeva». E che gli avevano pure regalato, ma questo mica cambia l’attaccamento alla roba che non ci possiamo permettere di noialtri provinciali consapevoli dei conti.
La vecchiaia ha questo di buono: che capisci che il tuo essere arricchito è una cosa da rivendicare, che non c’è niente di più ridicolo che fingersi signori, fingersi ricchi da decine di generazioni, fingersi gente che se mi macchi il divano che costa cinque mesi d’affitto che sarà mai, siam gente di mondo. Molto meglio il grido di dolore del poveraccio.
L’ultimo l’ho emesso qualche settimana fa. Una trentenne di quelle alle quali i genitori hanno comprato casa si è gettata su un divano (non mio, non particolarmente di design) a corpo morto. Sul cuscino c’erano i miei occhiali, li ho scansati giusto in tempo e poi le ho fatto un cazziatone. Lei ha fatto spallucce ricordandomi per un attimo il rovesciatore di birre, ma io da allora sono invecchiata, mi sono dalemizzata, e oggi non ho intenzione di portarmi tredici anni di rancoroso bagaglio a mano.
Figurati, le ho detto: al massimo se li rompi te li faccio ricomprare, costano quel che guadagni in due mesi. La tapina ha messo su un’aria contrita, e io sono certa che d’ora in poi si siederà disinvoltamente solo sugli occhiali di gente che sia ricca da almeno sette generazioni.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter