Se il lavoro che avete fatto a trent’anni, al culmine del vostro splendore fisico, vi rendesse decenni dopo – senza fare nient’altro – venti milioni di dollari l’anno, cosa fareste? Ordinereste dei drink dal vostro lettino su una spiaggia a Barbados? Andreste a piedi fino a un qualche santuario d’una qualche madonna a ringraziare che i vostri glory days siano stati così remunerativi? Oppure, per una cifra sicuramente alta ma che difficilmente cambierà qualcosa nel vostro non bisogno di chiedere una rateizzazione se volete cambiare la macchina, andreste in tv a mostrare come siete cambiati in vent’anni, a piangere sui filmini degli anni che furono, a dire che siete ancora grandi, è lo schermo che è diventato piccolo?
Me lo sono chiesto alla fine dello speciale di Friends (è su Sky e su NowTv), quello che non è una nuova puntata e non è neppure un film, ma è poco più d’un talk show, in cui i sei protagonisti (quelli che tenevano su la serie) e i tre autori (quelli che scrivevano assai sciattamente una serie che tanto era tenuta su dagli attori) rimembrano la loro vita mortale, quando un milione di dollari a puntata splendea negli occhi loro ridenti e fuggitivi, non come adesso che con gli stessi soldi garantiti potrebbero stare a casa e invece vengono a mostrarci i loro lifting riusciti male (Matthew Perry, tu sei il più fenomenale attore comico della mia generazione: come diavolo t’è venuto in mente d’andare dal chirurgo di Mickey Rourke? Era perché non volevi più somigliare a te stesso ma a Paolo Poli?).
Me lo sono chiesto mentre Courteney Cox diceva che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui si sarebbero trovati a parlare di Friends, «mica ce lo chiederanno di nuovo tra quindici anni», e io ho pensato che nell’economia della nostalgia, nel mercato in cui qualunque stronzata ha diritto al suo bravo revival, glielo chiederanno di sicuro tra quindici e forse pure tra trenta: tutto sta a vedere se saranno ancora avidi come oggi.
Happy Days è una sitcom che accompagnò le giovinezze dei nati negli anni Cinquanta, e l’infanzia dei miei coetanei. Ci allietò alcuni pomeriggi, e poi la dimenticammo, come accadeva quando esistevano gli adulti. Andò in onda dal 1974 al 1984, e io vi giuro che alla fine degli anni Novanta non esisteva un cinquantenne che sospirasse nostalgico se gli capitava di rivedere Fonzie che tirava su il pollice facendo «ehi!», che pensasse (o almeno dicesse in pubblico) che Happy Days era stata un consumo culturale rilevante, che si emozionasse all’idea di vedere com’erano invecchiati: al massimo strabiliavano per la perdita dei capelli di uno degli interpreti, Ron Howard, divenuto nel frattempo acclamato regista; oddio, si chiedeva il cinquantenne medio, ma se Richie Cunningham è pelato forse anch’io non sono più il figo d’un tempo.
Poi l’età adulta finì (come usanza, come fornitura: non se ne trova più in commercio, forse ce n’è qualche rimanenza nei magazzini), diventammo tutti scemi, essere grandi e razionali prese a essere considerata una disgrazia da liquidare con l’epiteto «boomer» (che incidentalmente indica la generazione di Happy Days), e ora stiamo come stiamo: usati, di seconda mano, e con i sei attori del consumo culturale meno rilevante degli anni Novanta, Friends, che si rivedono sul set, e se non fai finta che sia una cosa emozionante sei un guastafeste, e i produttori mandano alla stampa che guarderà in anticipo la rimpatriata una lista di sorprese che pregano di non svelare nelle recensioni, e tra esse c’è il nome di chi duetta con Lisa Kudrow su Gatto Rognoso, perché abitiamo un’epoca così scarsa che pure Gatto Rognoso va trattato come un momento di culto, come dicono quelli che non sanno dire.
Se non sapete cosa sia Gatto Rognoso, la canzoncina che veniva cantata da Phoebe, il personaggio della fricchettona, accomodatevi pure nella fila dei sani di mente, giacché il mondo si divide tra quelli che di Friends se ne fottono, e i bisognosi d’una lista di consumi culturali che li facciano cominciare a vergognarsi d’aver ritenuto rilevante Friends (ci metterei dentro persino Un medico in famiglia, che era scritto meno peggio); tra quelli per cui Courteney Cox è Monica, e i sani di mente (per cui è la ragazza che ballava con Springsteen nel video di Dancing in the dark); tra quelli cui interessa la vita sentimentale di Jennifer Aniston, e i normodotati (nella lista di cose che mi hanno pregata di non svelarvi ci sono, giuro, i sentimenti di Jennifer Aniston per un altro degli attori del cast: peccato, mannaggia, volevo giusto scriverci un saggio).
In un’ora e tre quarti di speciale, nessuno affronta un tema che sia meno che sorridente, e quindi non sapremo mai cosa quelli che tra il 1994 e il 2004 fecero Friends ipotizzino succederebbe oggi, a produrre una serie in cui il padre transessuale d’uno dei protagonisti è interpretato, santo cielo, da una donna (cioè: da una nata donna, non divenuta tale).
E – poiché ogni località si scandalizza per ragioni sue – chissà cosa succederebbe in Italia, chissà che interrogazioni parlamentari sulla serie diseducativa in cui Phoebe porta avanti una gravidanza surrogata. Considerato che qui Friends andava su Rai 2, forse se ne può retroattivamente occupare la commissione di vigilanza.
Non si parla neanche mai di soldi, ed è un peccato. Non solo perché non sapremo mai quanto ci sia voluto per schiodare i sei da divani dove i diritti di sfruttamento dell’immagine valgono comunque venti milioni l’anno. Ma anche perché quella del cast di Friends fu una trattativa che fece la storia: i sei rinegoziarono i contratti uniti come un vero sindacato, ottenendo di venire pagati tutti un milione a puntata. Fu un interessante caso d’abolizione del merito (adesso non vorrete dirmi che quel cane di David Schwimmer valeva come quei giganti degli altri cinque), ma anche del divario di genere.
Divario che però è impossibile abolire davvero, lo si capisce vedendoli diciassette anni dopo la fine. Quando gli unici a essersi sfasciati sono i maschi. Giacché, se sei una femmina che di mestiere sta davanti a una telecamera, una sola è la tua priorità: restare tutta la vita identica a quando il limitare di gioventù salivi.