La settimana scorsa mi hanno telefonato da un programma televisivo. Volevano sapere, onde valutare se invitarmi alla loro imminente puntata, cosa pensassi di Pio e Amedeo, del marito della Ferragni, della legge Zan, della rava, della fava. È stata una mezz’ora molto faticosa per il mio interlocutore, che cercava disperatamente di farmi entrare nelle caselle dualiste dei talk show.
Stai con le parolacce o con la libertà d’espressione, coi censori o coi tribuni della plebe, con la legge contro l’omofobia o col timore che pittino le unghie a tuo figlio maschio all’asilo? A quasi ogni domanda la mia risposta era che mi sembravano fesse entrambe le posizioni, e la disperazione del mio interlocutore cresceva. Gli leggevo nel pensiero: come diavolo si fa a dibattere in tempi televisivi con una che ciancia di complessità, e io ora chi invito, che ’sta stronza mi fa trovare con un buco in scaletta?
Il tizio mi chiamava perché, sui temi che girano attorno alla libertà d’espressione, ho pubblicato da poco un libro. Era tuttavia evidente, dalle sue domande e dal suo non riuscire a prevedere la direzione delle mie risposte, che il libro non l’aveva neppure sfogliato. E allora perché prendeva in considerazione d’invitarmi? Lo so, sebbene non gliel’abbia chiesto. Mi voleva in trasmissione perché ho le tette.
È un ottimo momento per approfittarsene, e vale anche se di tette ne hai poche: basta tu abbia i gameti giusti. Basta che il conduttore possa usarti per mettersi al riparo dalla più temibile accusa cancelletta: tutti maschi.
Ieri, una professionista del dilettantismo politico ha chiosato il caso di giornata con le parole «per una persona abituata a un contesto internazionale, vedere un parterre di ospiti tutto maschio, bianco, etero, cis è straniante». Il dettaglio che mi fa dare testate al muro, di questo penzierino, è «cis».
Lo dico per non fluenti in neolingua: «cis» significa «normale»; significa che sei nata femmina e tale ti sei tenuta, sei nato maschio e te lo sei fatto andar bene. Se, come ci ha raccontato il postmoderno, la rappresentatività è importante, gli inviti nei programmi televisivi dovrebbero non – per carità – essere formulati alle persone più capaci di parlare di qualcosa, ma a un campione rappresentativo della popolazione. Quanti trans o non binari o tutto ciò che non è la media dell’umanità ci sono, nella popolazione italiana? Invitare un trans ogni cento puntate non sarà già troppo, per un programma che voglia essere rappresentativo della società?
E cosa fai, se uno non fa del contenuto delle sue mutande una militanza: glielo chiedi? Scusi, vorrei invitarla nel nostro programma, ma prima avrei bisogno di sapere se lei è uomo perché ci è nato o perché ci si sente. Roba da rimpiangere le indagini esplorative in cui ti chiedevano d’avere un’opinione su Pio e Amedeo.
Il caso di giornata era quello di Rula Jebreal, già «persona abituata a un contesto internazionale». Anche la signora Jebreal ha un libro da vendere (non ce l’abbiamo forse tutte?), ma credo non fosse per questo che ieri sera era prevista la sua presenza a Propaganda, su La7. Immagino l’avessero invitata a parlare di Palestina, essendo lei di lì, ma è una donna con un libro da vendere, e Propaganda ha in questo senso una pessima reputazione. Gli editori dicono sbrigativamente: non sposta una copia.
In realtà non è sempre vero. Il libro di Filippo Ceccarelli (Invano), seppure uscito due anni prima, ebbe un buon riscontro di vendite quando l’autore comparve in trasmissione qualche mese fa. Tra lui e Diego Bianchi, il conduttore, c’era un’alchimia amorosa che mancavano solo le scene al rallentatore. Era tutto giusto, giacché Propaganda è una stanza dei giochi dei maschi.
Molti anni fa, sulle stanze dei giochi dei maschi volevo scrivere un libro. Su quei programmi in cui le donne sarebbe meglio non le invitassero, perché i conduttori non ci sanno parlare, e finisce solo che si sta tutti a disagio. Sui periodici femminili, convinti che noialtre lettrici non compreremo i rossetti che pubblicizzano se in copertina non ci mettono una donna (cui in genere il rossetto sta meglio che a noi). Sul fatto che, invece di continuare a frignare perché non ci fanno giocare coi loro trenini, dovremmo costruircene di nostri, altrettanto appetibili.
Comunque, quel libro non lo scrissi mai, e ora sto divagando.
Non vi ho ancora detto di Rula a Propaganda. Desumo che non avesse mai visto il programma, e non sapesse quindi che è una stanza dei giochi dei maschi, in cui ogni tanto invitano una donna per non farsi dire «tutti maschi», e perché sono pur sempre di sinistra. Desumo che sia troppo timida per chiedere, quando la invitano, chi siano gli altri ospiti. E quindi si è accorta solo ieri, dal post su Instagram della trasmissione, d’essere l’unica donna ospite, e sempre su Instagram ha commentato che allora non sarebbe andata, «come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione».
Della sua ospitata a Propaganda non si sarebbe accorto nessuno, così invece ha avuto ogni possibile titolo sui siti dei quotidiani e lancio d’agenzia. È stata la contessa du Barry in quella seminale scena di Lady Oscar in cui, dopo che il re ha ordinato a Maria Antonietta di salutare la sua amante a un ricevimento di corte, la principessa si umilia a rivolgere la parola a una cortigiana, e la contessa in risposta le ride in faccia.
Ho passato la serata a dirmi che avevo tutto da imparare da Rula, io che non avevo neanche avuto la prontezza di twittare che il tal programma non mi aveva invitata di certo perché ero donna – oltre che per le mie scomodissime opinioni su Pio e Amedeo, certo, ma principalmente per sessismo.
Avevo tutto da imparare da Rula, che con tanta pubblicità come minimo rientrerà in classifica come mai le sarebbe accaduto con una banale ospitata in cui parlare di Palestina. Ci rientrerà con merito, dopo aver dimostrato che è davvero in grado d’insegnarci ciò che promette non tanto il titolo – Il cambiamento che meritiamo – del suo libro, quanto il sottotitolo: Come le donne stanno tracciando la strada verso il futuro.