Ci sono epoche storiche in cui i cittadini di un Paese o un’area del mondo hanno una maggiore attenzione verso l’economia. Per anni, la globalizzazione ha sempre costruito una visione del mondo dove i beni, i servizi e il capitale avrebbero attraversato i confini di ogni paese come mai prima ad ora. L’economia globalizzata di oggi è stata caratterizzata da una serie di grandi accordi commerciali che sono stati presentati come proposte vincenti. Ma adesso questo ottimismo sembra essersi perso.
Una lunga analisi di Foreign Affairs spiega come la globalizzazione abbia influito sull’economia della Cina e degli Stati Uniti, soffermandosi in maniera particolare sulle conseguenze negative del libero scambio sul mercato americano.
«Gli americani hanno cambiato punto di vista sul commercio» si legge nell’articolo firmato da Gordon Hanson, docente di economia dell’università di San Diego.
«Anche se la maggior parte degli elettori vede il libero scambio come un vantaggio, solo un terzo di loro crede che possa portare alla creazione di posti di lavoro o a prezzi bassi. In risposta a questo, la classe politica si è allontanata dalle strategie di libero scambio e dai principali accordi del passato».
Nel suo articolo, Hanson spiega come alla base degli effetti negativi della globalizzazione sul mercato statunitense ci sia il NAFTA (North American Free Trade Agreement), un accordo per il libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore nel 1994. Il trattato ha abolito le barriere di confine per allargare commercio e gli investimenti fra i Paesi membri, rendendo le economie dei tre Stati unite ed interconnesse.
Le premesse di questo grande accordo sembravano positive, ma il NAFTA ha fatto il minimo indispensabile: ha portato piccoli vantaggi, fornendo alle aziende statunitensi l’accesso a mezzi di produzione a bassi prezzi e migliorando il vantaggio competitivo nei mercati globali, ma non ha fatto miracoli.
Questo spiega perché l’atteggiamento protezionista dell’ex presidente Donald Trump ha avuto un grande appoggio da parte del Partito Repubblicano.
In campagna elettorale, Trump ha dichiarato di voler abolire l’accordo, indicandolo come la causa della perdita di migliaia di posti di lavoro nel settore manifatturiero, la colonna vertebrale dell’America.
«Non è avvenuto nessun cambiamento significativo, ma molti lavoratori statunitensi, specialmente quelli delle industrie manifatturiere, hanno perso il lavoro. Alcuni alla fine hanno trovato lavoro in nuove fabbriche di camion e motori a reazione, ma la maggior parte non ci è riuscita. Per loro, i vantaggi che il NAFTA dava agli altri non offrono alcuna consolazione» scrive Hanson.
Ciò che è successo in Nord America, però, ha avuto un impatto opposto dall’altra parte del mondo, quando il libero mercato diede la possibilità alla Cina di diventare una potenza economica globale.
Verso la fine degli anni ’70, il nuovo leader della Cina Deng Xiaoping attuò un cambiamento radicale per l’economia del paese. L’industria siderurgica, che aveva sempre rappresentato il settore trainante, si indebolì per far posto all’agricoltura. La produzione agricola cinese, però, non era più sufficiente per sostenere economicamente l’intera popolazione.
Per questo Xiaoping riformulò il suo piano economico permettendo alle imprese private di prosperare e aprendo la Cina all’investimento straniero. L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto dal governo cinese, e in poco tempo l’economia crebbe a grande velocità.
«Negli anni ’90 – scrive Foreign Affairs – il modello di crescita trainato dalle esportazioni si basava quasi esclusivamente su prodotti ad alta intensità di manodopera: abbigliamento, calzature e altri beni di consumo che la Cina poteva produrre a buon mercato più degli altri paesi a causa del suo basso costo del lavoro».
Da allora la Cina ha diversificato la sua economia, ma questa ondata iniziale di esportazioni ad alta intensità di manodopera «si è rivelata mortale per la produzione americana».
Oltre a spiegare gli effetti negativi della globalizzazione sul mercato americano, l’analisi di Foreign Affairs prende in considerazione anche il lato positivo che ha permesso agli USA di avere benefici dalla Cina.
L’espansione delle aziende multinazionali con sede negli Stati Uniti, come Apple e Qualcomm, hanno avuto modo di commercializzare i loro prodotti e le loro idee. Gli iPhone, ad esempio, sono stati sviluppati in California, presso la sede di Cupertino della Apple, ma si sono diffusi perché la Foxconn, la più grande azienda produttrice di componenti elettronici al mondo, ha assemblato un numero enorme di telefoni a Shenzhen.
Queste innovazioni sono diventate preziose per i lavoratori e gli azionisti statunitensi, così come per i milioni di lavoratori in Cina. Anche i consumatori americani traggono vantaggio dalla crescita della Cina, grazie ai prezzi più bassi sui beni che acquistano.
Per il Foreign Affairs una delle soluzioni per avere benefici dal libero scambio è il rientro degli USA nel Partenariato Trans-Pacifico, uno dei più grandi accordi commerciali mai stipulati. Il suo testo, firmato da dodici paesi tra cui proprio gli Stati Uniti, è incentrato sul taglio di dazi per creare un libero mercato, semplificando le normative sul copyright e cancellando le barriere sugli investimenti.
«In questo modo si approfondirebbero le relazioni economiche tra gli Stati Uniti e i paesi che produrranno beni per la prossima generazione di tecnologia» si legge sull’articolo di Gordon Hanson.
Di contro, però, l’amministrazione Biden sta cercando di attuare delle misure simili a quelle del suo predecessore con rigide disposizioni chiamate “Buy American”, che inaspriscono le norme esistenti sugli appalti pubblici e favoriscono l’economia interna.
Più in generale «l’amministrazione Biden dovrebbe concentrarsi sulle conseguenze della perdita di posti di lavoro piuttosto che sulle loro cause». L’esplosione economica in Cina ha danneggiato molti lavoratori statunitensi e le loro comunità, così come la Grande Recessione e la pandemia.
Ma, nella sua analisi, Gordon Hanson sostiene che «le risposte al danno non dovrebbero dipendere dall’identità del colpevole. Tutta la politica economica deve essere più incentrata sui lavoratori in sintonia con gli effetti distruttivi dei licenziamenti e delle chiusure di stabilimenti».
È ancora da capire se gli Stati Uniti possano riprendersi dalle conseguenze negative della globalizzazione, ma «aiutare le regioni dimenticate dovrebbe essere un obiettivo fondamentale dell’amministrazione Biden».
Per Foreign Affairs questi obiettivi sono necessari: «cercare di annullare tre decenni di cambiamenti strutturali nell’economia globale non è il modo giusto per arrivarci. Biden e i suoi collaboratori devono avere le idee chiare su ciò che la politica commerciale può e non può fare per aiutare i lavoratori colpiti dalla globalizzazione».
Gli effetti collaterali del libero scambio hanno dato non pochi problemi agli Stati Uniti, per questo «è necessario aiutare i disoccupati a rimettersi in sesto con un’assistenza e creare una rete di sicurezza molto più forte per proteggere le future generazioni di lavoratori americani».