Per molto tempo ho pensato che la risposta a «Come si rovina un intellettuale?», la sintesi della smaniosità di questo nostro tempo, fosse contenuta in una delle poche canzoni di Lucio Dalla che mi stessero antipatiche, L’anno che verrà. Per molto tempo ho pensato che fosse tutto in quel «Vedi amico mio, come diventa importante che in questo istante ci sia anch’io». Ho trovato una sintesi alternativa ieri, in una canzone apparentemente più di pronto consumo, il cui ritornello fa «perché si sa che gli piace la fi’, la sor’, la fre’, più delle opere di Brecht, che gli piace di mettere le mani sul culo più dei Notturni di Chopin».
Ma andiamo con ordine.
Comincerei con Ciro Grillo, se avessi la giornata libera per star dietro ai brillanti comprenditori di punti del discorso che poi m’insultano perché ho osato parlare d’un aspetto marginale d’un’accusa di stupro; mentre si sa che, se c’è di mezzo uno stupro (per ora presunto, ma non cavilliamo), l’unica cosa che è concesso dire è «brutto cattivo galera patriarcato schifo».
Se cominciassi da Ciro Grillo, direi che l’altra sera se ne parlava da Giletti, facevano vedere le chat in cui i ragazzi il giorno dopo si erano vantati con gli amici dei video della nottata, e un intellettuale che stava guardando il programma mi ha scritto quanto fosse contento d’aver avuto vent’anni quando non c’erano i telefoni che filmavano, e io mi sono ricordata del 2004.
Nel 2004 l’ex fidanzato di Paris Hilton fece uscire un video di loro due che facevano sesso. Oggi si chiamerebbe “revenge porn”, allora non c’erano parole per dirlo, perché i telefoni non facevano foto e filmati, e quindi quasi nessuna di noi aveva lasciato in giro immagini compromettenti di sé, e quasi tutte ci chiedevamo come potesse questa Paris essere così scema.
Quello che non sapevamo è che l’occasione fa l’essere umano pornografo, e l’occasione che ci mancava l’avremmo, cinque anni dopo, avuta tutti in tasca. Non riusciamo più a mangiare una pizza, senza fotografarla: figuriamoci il sesso.
Abbiamo rimosso dal nostro orizzonte dialettico l’idea che uno che vuole una tua foto nuda, o un filmato di voi che fate sesso, sia in cerca di materiale da condividere con gli amici: ma no, che c’entra, sono immagini che servono per guardarle in coppia. Perfino le diapositive delle Maldive le ammollavamo ai poveri amici che venivano a cena, ma i filmini di sesso no, per carità, su quelli noi esseri umani siamo discreti.
Uno degli imputati del caso Grillo scrive a un amico che mai si sarebbe perso l’occasione di filmare la serata, e io non so quale sia la domanda giusta: se sia sano di mente filmare uno stupro? Se sia sano di mente filmare del sesso che si ritiene consensuale? Se sia sano di mente fotografare la pizza?
Ma, se siamo diventati così convinti che se una cosa non la immortaliamo non ci sia mai successa noi, che siamo cresciuti quando la stampa e lo sviluppo dei rullini si pagavano, ci può meravigliare che qualcuno nato in questo secolo immortali una notte di sesso con la naturalezza con cui noi l’avremmo raccontata nel diario col lucchetto? Possiamo davvero pensare che faccia differenza la consapevolezza della violenza? Tutto quel che ti succede non ti è successo davvero finché non ce l’hai sul telefono: gli amori e i reati non sono diversi, nell’esigenza di riproducibilità.
L’intellettuale che mi spiegava il sollievo di non aver avuto vent’anni nell’era della riproducibilità mi ha anche spiegato alcuni tecnicismi per mandare in giro foto del bigolo senza sputtanarsi, come già è accaduto a suoi colleghi intellettuali (il più grosso fallimento femminile è non essere riuscite a far capire ai maschi che quello che hanno tra le gambe è un brutto oggetto, poi una se lo fa andar bene perché a volte si accantona l’estetica in nome dell’uso, ma le foto per favore no).
Ma la vera domanda è: la via più breve per non rischiare sputtanamenti (se non addirittura processi) non è evitare di fotografarsi l’arnese, di filmare gli accoppiamenti, di immortalare la pizza? Dobbiamo proprio averne le prove, che in quell’istante ci siamo stati anche noi? Dobbiamo proprio essere scemi come ventenni, noi adulti?
A fornirmi la risposta è arrivato, ieri, un pezzo di tv che m’ero persa, giacché come tutti non guardo Una pezza di Lundini, e come tutti ne parlo benissimo. Nel programma più lodato e meno visto della tv italiana, la scorsa settimana s’è esibito il cantautore Niccolò Contessa, con una canzone senza titolo, una marcetta che definirei il ritratto del perfetto intellettuale postmoderno.
Prima di capire cosa distrugge un intellettuale, bisogna decidere cos’è un intellettuale. Ai fini della nostra ricognizione, direi di rubare due righe alle Illusioni perdute di Balzac. Intellettuale, direi, è il poverocristo che tenta di arrivare a «ciò che bisogna chiamare, a seconda dei talenti, l’infatuazione, la moda, la reputazione, la rinomanza, la celebrità, il favore pubblico, tutti gradini che portano alla gloria e che non la sostituiscono mai».
Il derelitto in cerca di gloria viene descritto da Contessa così, trascrivo passaggi della canzone moschicida: «Quello tanto bravo, sempre impegnato, sempre a sinistra […] E a tutta la città fa la lezione […] e a tutte quante le guaglione che gli spediscono i DM le invita per un tête-à-tête nella sua camera d’hotel. Lui ci dirà dove il mondo va, quasi un profeta: isso è scrittore di romanzi, persino di graphic novel, e ci regala i suoi aforismi sempre su internet. Una ne pensa e cento ne dice: sai che peccato se il genio tace. E a tutta la città fa la lezione, specie alle giovani e alle signore, perché si sa che gli piace la fi’, la sor’, la fre’» – eccetera.
Mentre cercavo per tutto il pomeriggio di spiccicarmi di dosso quel ritornello moschicida, così imbarazzante e così sublime (era dai tempi di Tu, vecchia mutanda tu di Renzo Arbore; ma allora avevo la scusa d’avere tredici anni), mi chiedevo se l’intellettuale cui piace la fre’ e che invita le fanciulle che gli mandano i messaggi privati sui social, quello convinto che sia un peccato se il genio tace, quello bravo e impegnato ma che trova sempre tempo per rimorchiare (dev’essere anche quello un gradino per la gloria), mi chiedevo se fosse più Tizio o più Caio, se lo avessero ispirato tutti e dieci (minimo) i nomi che mi venivano in mente, o se fosse il ritratto a chiave di uno solo di loro.
Come si uccide un intellettuale? Non lo so, ma rovinarti la lettura d’ogni suo futuro editoriale sull’etica, o la visione d’ogni suo prossimo ponderato intervento sulla pace nel mondo, o l’ascolto del programma radiofonico in cui spiega quant’è necessario il suo ultimo libro; il non permetterti mai più di consumare le sue opere pubbliche senza canticchiare «gli piace la fi’, la sor’, la fre’», ecco, sono abbastanza certa che costituisca intellettualicidio doloso.