Come tutti, ho comprato il mio primo long playing nell’autunno del 1981. È di questo che parliamo quando diciamo che abbiamo una memoria condivisa o che siamo la generazione che ha inventato la nostalgia: vedevamo tutti le stesse poche cose che passavano in tv, compravamo gli stessi dischi, ci facevamo piacere gli stessi romanzi.
Solo che no. Solo che io, in quell’autunno dell’81, ho scelto di investire la mia paghetta di novenne nel 33 giri sbagliato. L’ho scoperto ieri, quando è venuto fuori che, nell’autunno dell’81, i miei coetanei hanno comprato tutti La voce del padrone. Nell’autunno dell’81, io ho comprato il disco di Nikka Costa, il cui faccione in copertina diceva che era una me solo più fortunata: novenne, riccia, con gli occhioni. Ma certo, lei era figlia d’un colosso della musica (che di lì a pochissimo sarebbe stato il nome dell’enciclopedia musicale per cui lavoravano Verdone e la Giorgi in Borotalco), e io al massimo potevo farmi bocciare al provino per lo Zecchino d’oro.
Nell’autunno dell’81, io Battiato non l’avevo mai sentito nominare. Sebbene, com’è congruo per quel che riguarda la cultura popolare, l’avessi consumato senza conoscerlo: sua era Per Elisa, che cantata da Alice aveva vinto il Sanremo di quell’anno e intorno alla quale trentacinque anni dopo avrei pubblicato un romanzo. Meglio: intorno alla mia piccolissima tragedia familiare. Una parente era cornuta (le donne della mia famiglia sono tradizionalmente cornute) d’un’Elisa, e considerava il fatto che da qualunque radio uscisse quella canzone un affronto. Il 1981, a casa Soncini, fu un anno abbastanza crudele.
Forse la prima volta che chiesi «ma cos’è» e qualcuno mi rispose «Battiato» fu seduta per terra, in fondo alla sala strapiena dell’Odeon di via Mascarella, quando Nanni Moretti strazia quella del sentimento popolare che nasce da meccaniche divine nel suo miglior film, Palombella rossa – che anche quello, vai a sapere se è il suo miglior film davvero o è solo che avevo diciassette anni ed era tutto ancora intero.
Di sicuro, la prima volta che mi interessai a Battiato fu in un sabato sera romano, guardando Harem, che era il programma che non mi perdevo se per caso il sabato sera ero (ancora? già?) a casa. Se siete troppo giovani per averlo visto, sappiate che Catherine Spaak aveva ospiti tre donne, un uomo origliava la loro conversazione, entrava alla fine e diceva la sua (chissà se oggi sarebbe mansplaining). Se siete abbastanza vecchi da conoscerlo, lo ricorderete come il programma dal quale gli italiani della mia generazione hanno imparato a essere i più cani intervistatori della storia delle interviste.
Ma tutto questo non c’entra. Il dettaglio rilevante ai fini del sentimento popolare (che nasce da meccaniche algoritme) di oggi, quello per il quale dobbiamo tutti parlare del morto di ieri, è che la Spaak chiedeva sempre alle sue ospiti una canzone (ma senza farla eseguire a una pianista, se già state dicendo «ma è come Marzullo»). Era un ottimo modo per capire che avremmo sofferto tutta la vita, che le nostre canzoni sacre erano anche le preferite delle più impresentabili attricette o vallette o miss in gambissima. Non mi sono ancora ripresa da quella che disse che la sua preferita era Stella di mare, non la nomino perché la me cinquantenne si vergogna di quanto la me ventenne disprezzasse una la cui unica colpa era d’essere una bonazza.
Insomma, un sabato sera c’era Edwige Fenech, che a metà anni Novanta andava di moda stimare molto perché era passata da attrice di film cochon a produttrice con un cervello, e perdipiù stava con Luca di Montezemolo, dopo una vita lungo la quale le nostre nonne ci avevano spiegato che quelli come Luca quelle come Edwige le tenevano nascoste in un pied-à-terre, mica ci si fidanzavano ufficialmente. Edwige era tutte noi che non eravamo abbastanza bon ton da accaparrarci un miliardario ma ci speravamo lo stesso (insomma, era per la realtà quel che Julia Roberts era per il cinema). Disse Edwige che Luca le aveva dedicato La cura, e io per la prima volta m’interessai a questo tal Battiato.
Ci misi decenni ad approfondire e ad arrivare alla conclusione che La cura passa per una canzone d’amore per la stessa profonda incomprensione per cui il pubblico aveva scambiato Thelma e Louise per un film femminista (gli anni Novanta erano funzionalmente analfabeti quanto gli anni Venti, ma la gente si esprimeva meno quindi non avevamo modo di accorgercene).
Voglio dire: è una canzone in cui lui dice a lei che la proteggerà «dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai», roba che se qualcuno avesse osato dirmi qualcosa del genere una gomitata nelle costole non gliela levava nessuno (Montezemolo poteva dirmela, ma prima doveva almeno intestarmi un paio d’appartamenti).
Molti anni dopo avrei visto un monologo femminista sanremese imperniato sui versi di quella canzone, e mi sarebbe stato chiaro che il pubblico continuava a non capire le parole delle canzoni, e che a Sanremo non bisogna fare i monologhi femministi.
In qualche pagina di Venerati maestri (2006), il libro in cui demolisce tutti i poster della sinistra culturale, Edmondo Berselli teorizza che Franco Battiato ci prendesse per il culo (sintesi mia).
«In passato gli abbiamo consentito di titolare Fleurs 3 il suo secondo disco di cover, forse in ossequio al numero perfetto, forse come riconoscimento di una distrazione divina o astrale, ispirata da sentimenti troppo profondi e misteriosi per essere razionali», sbuffava Berselli. Che purtroppo è morto prima di vedere i più luminosi analfabeti tra i parolieri viventi ringraziare Battiato per esser stato il loro maestro. Non si capisce bene in che settore, visto che quello faceva le canzoni sui dervisci e loro non riescono neanche a scrivere un verso con le concordanze giuste sul cappuccino bevuto la mattina.
Comunque, tutto questo non mi riguarda, e il lutto collettivo di ieri è stato una ricreazione. Ormai, quando muore qualcuno che non è stato fondamentale per la tua formazione, fa l’effetto d’un festivo infrasettimanale. Questo giro di link alle migliori interviste e apparizioni e versioni di canzoni posso risparmiarmelo. Mi si nota di più se non mi dolgo.
Tutto questo non mi riguarda ma riguarda tutti quelli che conosco, che chissà se mentono. Chissà se nell’81 comprarono davvero La voce del padrone, o è come quando giurano che negli anni Novanta ascoltavano i Nirvana, mica Alanis Morissette, i cui trenta e fischia milioni di copie devo averli comprati tutti io. Che d’altra parte sono l’unica che nell’81 comprò Nikka Costa.