Lo status quo convienePalestinesi e israeliani non troveranno mai un accordo definitivo per la pace

Le soluzioni di cui si parla, seppur per motivi diversi, oggi sono irrealizzabili: né due Stati né un solo Stato che comprenda tutti sembrano percorsi possibili

Hummingbird

Il riaprirsi del conflitto tra Israeliani e palestinesi non è la conseguenza dello sfratto di una famiglia palestinese da una casa in Gerusalemme est. Quello è stato solo l’ultimo pretesto. Lasciamo a parte il fatto che quella casa era da anni occupata abusivamente, senza titolo alcuno di proprietà o pagamento di affitto, e che la Corte Suprema doveva ancora emettere una sentenza definitiva sulla questione, il vero motivo della recrudescenza del conflitto va ricercato in una questione tutta interna ai gruppi palestinesi. In particolare, tutto nasce con la decisione di Abu Mazen di rinviare a data da destinarsi le elezioni legislative che avrebbero dovuto tenersi il 22 maggio prossimo.

Ufficialmente la ragione del rinvio, così come dichiarato da Ramallah, era stata l’impossibilità, causa l’opposizione di Israele, di far votare anche i palestinesi che ancora abitano Gerusalemme Est ma Tel Aviv ha smentito di averlo mai proibito. Ora la questione è diventata del tutto insignificante.  È dal 2014 che i palestinesi non votano i loro rappresentanti presso la loro Autorità Nazionale (ANP) e ogni volta che lo si doveva fare sono stati trovati nuovi pretesti. Anche questa volta, come in precedenza la vera ragione è la divisione interna al gruppo di Al Fatah e la conseguente probabilità che Hamas possa ottenere una vittoria elettorale schiacciante. Senza contare che per luglio sarebbero previste le elezioni presidenziali e le previsioni danno una sconfitta pressoché sicura per Abu Mazen.

Anche Giordania ed Egitto non gradirebbero una vittoria di Hamas e sembra che rappresentanti dei loro Servizi abbiano contribuito alla decisione del rinvio. Persino a Tel Aviv l’idea che Hamas conquistasse la leadership in Cisgiordania (ora controllata da Al Fatah con cui è più facile almeno teoricamente dialogare) oltre che nella Striscia di Gaza non era certo benvenuta ma i Servizi israeliani avevano già lanciato un allarme: se non si terranno queste elezioni, è molto probabile che Hamas reagisca con il lancio di nuovi missili da Gaza verso il territorio israeliano. Cosa che è puntualmente avvenuta.

La vera ragione che impedisce ogni realistica soluzione del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi è che nessuna delle due parti ha interesse ad arrivare a una sistemazione definitiva che riesca ad accontentare entrambi. L’odio che tutti invitano a seppellire è ormai troppo radicato e gli obiettivi delle due parti sono totalmente inconciliabili. Gli integralisti religiosi ebraici non hanno mai avuto, né hanno, alcuna volontà di accettare una pacifica convivenza con i palestinesi, abitino essi all’interno dell’attuale Stato di Israele o nei Territori. Costoro, interpretando alla lettera la Sacra Scrittura, sono profondamente convinti che tutta la regione che fece parte del Protettorato inglese spetti loro per diritto divino e che i palestinesi che la abitano siano degli abusivi.

Ancora peggiore si prospetta la situazione se guardiamo nell’altro campo, quello palestinese. I politici stranieri che invitano alla pace ed al rispetto reciproco probabilmente non sono mai stati sul posto o, se lo hanno fatto, si sono limitati agli incontri e alle chiacchiere ufficiali. Non va dimenticato che Arafat era uso dare due diverse narrazioni se parlava per gli occidentali o se si rivolgeva al mondo arabo. Nel primo caso si presentava sempre come disponibile al dialogo e si limitava ad accusare gli israeliani di non voler rispettare gli accordi raggiunti.

Quando parlava in arabo, invece, riempiva il suo eloquio di insulti irriferibili verso la controparte. Alcuni anni orsono ho potuto visitare Israele, i Territori e anche Gaza e la cosa che più mi colpì fu quando, proprio a Gaza, potei visitare una scuola finanziata e gestita da un’organizzazione dell’ONU il cui direttore, se non ricordo male, era un norvegese. Le pareti di tutte le aule portavano dei manifesti, alcuni a stampa altri scritti manualmente dagli studenti, che più o meno recitavano così: «Odio gli ebrei perché hanno rubato la mia terra», «Odio gli inglesi perché hanno dato la terra che era mia agli occupanti ebrei» e via di questo passo. Non ricordo esattamente se fu all’interno di un’aula o in un corridoio che vidi una cartina che raffigurava tutta la regione. Ebbene, in quello spazio che veniva designato come “Palestina” non c’era alcun accenno all’esistenza di Israele e nemmeno ai confini certificati dalle Nazioni Unite.

Interrogai il direttore e la sua risposta fu che si trattasse di una cartina “fisica” e non “politica” e per questo non veniva menzionato Israele. La risposta era, evidentemente, falsa e ipocrita poiché tutti gli Stati confinanti con quello che arbitrariamente veniva indicato solo come “Palestina” erano identificati con i loro nomi: Egitto, Libano, Giordania, Siria e i loro confini erano ben evidenziati. Come si può pensare di pretendere che cessi l’odio se perfino in una scuola gestita e finanziata dall’ONU si insegna proprio a odiare gli israeliani fin dalla giovine età? È malafede o solo ipocrisia?

D’altra parte, Hamas, che si dichiara “branca” dei Fratelli Musulmani, ha sempre negato ogni soluzione pacifica e nel suo proprio Statuto, all’art. 13 scrive esplicitamente: “Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione…” e l’obiettivo dichiarato è la sparizione di Israele come Stato.

Durante la mia visita assistetti anche a cosa significa il lancio di missili che piombano a sorpresa su case ed edifici pubblici senza alcun preavviso. Stavo ad Ashdod, in territorio israeliano poco lontano dal confine con Gaza, e gli abitanti mi raccontavano che ogni giorno arrivavano quattro o cinque razzi, fortunatamente dotati di una ridotta (allora, oggi è diverso) capacità di procurare molti danni. C’era, e c’è, da stupirsi per la reazione dell’aviazione israeliana?

L’equivoco di fondo sta nella soluzione ufficiale proposta dalla Comunità internazionale: Due popoli – Due Stati. Purtroppo, anche se questa ipotesi sembrerebbe accontentare tutti, nessuno la vuole davvero ed è diventata totalmente impraticabile. Già sette anni fa John Kerry, allora Segretario di Stato americano, aveva avvertito che se fossero passati altri due anni senza realizzarla, quella possibilità sarebbe diventata impraticabile. Nel 2016 la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU chiedeva di “salvare la soluzione dei due Stati” e imponeva la fine immediata di nuovi insediamenti israeliani nei Territori.

Ciò nonostante, i coloni ebrei che vivono oggi fuori dai confini ufficiali dello Stato sono tra 500.000 e 700.000 ed è impossibile immaginare un futuro Stato palestinese che accetti di avere quegli insediamenti al proprio interno. Al contrario, se essi fossero considerati parte integrante di Israele, la nuova Palestina diventerebbe un mosaico ingestibile e senza collegamenti diretti tra una parte e l’altra. Occorre avere il coraggio di ammetterlo: pensare a due Stati autonomi in quell’aerea è un’idea ormai tramontata. La comunità internazionale continua a fingere di considerarla una soluzione fattibile, ma chi affronta il problema con realismo sa che non si realizzerà mai. Non lo vuole la maggior parte dei politici israeliani e non lo vogliono né Hamas né la sempre più debole ANP.

Che fare dunque? Anche le uniche soluzioni ipotizzabili oggi sono ugualmente, se pur per motivi diversi, irrealizzabili.

Una consisterebbe nel congiungere i territori attualmente abitati dalla stragrande maggioranza dei palestinesi con la Giordania e favorirvi il trasferimento di tutti i palestinesi che lo desiderano. Questa ipotesi è oggettivamente irrealistica e il primo a rifiutarla sarebbe il Regno hascemita di Amman. Già oggi il Regno fatica a tenere insieme il gran numero di palestinesi già presenti in Giordania (il 45% della popolazione) con l’etnia araba locale e nemmeno il matrimonio del re con una giovane e bella palestinese, Ranja, è stato sufficiente per superare tutte le contrapposizioni. Il conglobare all’interno della Giordania un grande numero di nuovi palestinesi, metterebbe sicuramente a rischio la tenuta della monarchia con le conseguenti nuove forme di instabilità regionale.

La seconda soluzione sarebbe quella di un unico Stato israeliano che includesse tutti i Territori e la popolazione ivi residente come cittadini con uguali diritti, indipendentemente dalla loro etnia o religione. A questa ipotesi si contrappongono due ostacoli insormontabili. Il primo è la pretesa palestinese del cosiddetto “diritto al ritorno”, in base al quale tutti i profughi palestinesi e i loro discendenti attualmente presenti in Libano, in Giordania e in Egitto, potrebbero tornare a vivere nella zona d’origine loro o dei loro avi. Ciò causerebbe un totale cambiamento nel rapporto numerico tra le due etnie facendo diventare maggioranza quella araba sopra quella ebraica. Qualcuno immagina che sia una proposta accettabile da parte di un qualunque ebreo israeliano che emigrò in Israele proprio cercando una propria “Patria”?

Il secondo grande ostacolo è nel provvedimento (incluso nella cosiddetta “Legge Fondamentale”, essendo Israele priva di Costituzione) fatto approvare nel 2018 da Netanyahu che statuisce essere Israele uno stato “ebraico”, non tanto della nazione israeliana bensì del “popolo ebraico”.  Nella legge non si cita il fatto religioso come discriminante ma resta evidente che un cittadino che non sia etnicamente ebreo, pur restando cittadino, non è niente più che un “ospite”. Rispettato magari e soggetto di diritti, ma pur sempre “ospite”. Sarebbero molti i palestinesi disponibili ad accettare quella che qualcuno definisce già una “discriminazione” o perfino novello “apartheid”?

Come si può vedere, almeno sul breve e medio termine, la situazione appare senza via di sbocco: né due Stati né un solo Stato che comprenda tutti sembrano praticabili.

Tutti i politici avveduti lo sanno bene ma ammetterlo significherebbe anche accettare l’idea che lo scontro, seppur a fasi intermittenti, continuerà senza fine.  Lo hanno ben capito gli Stati arabi del Golfo che hanno riaperto le relazioni ufficiali con Tel Aviv ed era chiaro anche a Trump quando decise che l’Ambasciata americana dovesse trasferirsi a Gerusalemme.

Ovviamente, tutti auspichiamo che il conflitto attualmente in atto si fermi, che Hamas non lanci più altri missili e che Israele non reagisca, che non ci siano più morti e distruzioni ma, se non vogliamo continuare a raccontarci delle favole, dobbiamo sopportare l’idea che lo status quo (si spera più pacifico) continuerà ancora a lungo.