Modello sostenibileLa moda ha bisogno di ossigeno, proprio come il pianeta

Il mondo del fashion è alla ricerca di un business in grado di intercettare la domanda delle nuove generazioni, sempre più attente all’ambiente. Il primo obiettivo è produrre meno, ma il cambiamento più importante deve essere nell’approccio: separare la crescita di redditività da quella dei volumi è più che mai necessario

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Mettere in campo nuovi modelli di business è il solo modo in cui i marchi di moda possono andare incontro alla crescente sensibilità per le produzioni sostenibili dimostrata dai più giovani (Millennial, Gen Z e Gen Alpha): coloro che presto costituiranno la maggioranza assoluta del mercato globale.

Non solo in Europa e Stai Uniti, ma pure in Cina e persino in Russia in queste fasce generazionali l’ansia per quel che sta accadendo a livello ambientale sul pianeta cresce: la pandemia – per la prima volta scatenatasi ovunque e contemporaneamente – ha acuito ulteriormente questa sensibilità.

È ormai di dominio comune che il tessile-abbigliamento quanto a inquinamento è secondo solo all’estrazione degli idrocarburi e quinto nella classifica per emissioni globali di carbonio. Oltre il 20% di tutti i composti chimici attualmente prodotti sono utilizzati per il finissaggio degli abiti, mentre il nostro bucato rilascia mezzo milione di tonnellate di microfibre nell’oceano ogni anno.

La produzione di abbigliamento è aumentata vertiginosamente negli ultimi decenni: 100 milioni di tonnellate all’anno secondo alcune stime. In Occidente è guidata non solo dalla crescita della popolazione, ma pure dall’aumento e dal continuo slancio del fast fashion, colpevole di immettere sul mercato una massa di oggetti di bassa qualità intrinseca, per questo poco durevoli e nel loro insieme capaci di produrre quantità impressionanti di rifiuti tessili che nessuno sa bene come smaltire.

È recente la messa in opera di programmi – elogiati per le loro circolarità – che prevedono il ritiro di capi usati. Il Garment collecting program è quello presente nei negozi di uno dei leader assoluti del fast fashion come H&M, ma sempre più rivenditori raccolgono indumenti già utilizzati per rivenderli, ripararli o riciclarli.

L’obiettivo è fare in modo che un minor numero di indumenti terminino il loro ciclo di vita tra i rifiuti delle discariche, per lo più collocate nel Sud del mondo. In Ghana, uno dei più grandi collettori di usato del mondo, i ricercatori hanno stimato che il 40% degli indumenti importati viene inviato direttamente a una discarica senza essere mai più venduto o indossato.

Ma c’è di peggio: l’usato ammassato a terra nei mercati locali finisce in gran parte prima sulle spiagge trascinato dalle piogge, e da lì in quantità sempre più preoccupanti nell’oceano. Un’apocalisse di cui soffrono persino le eliche delle barche dei pescatori locali spesso, impossibilitate a ruotare.

Sono sempre di più a ritenere questo non più tollerabile. Le informazioni circa l’allarmante cambiamento climatico o la spazzatura che galleggia negli oceani (che si tratti di sneakers, prodotti tessili o sacchetti di plastica poco importa) sono ormai alla portata di tutti e la necessità di ridurre produzioni non più sostenibili, sta diventando parte di un’unica visione del mondo: il che esercita una pressione crescente per la creazione di modelli di business differenti.

Spinti dalla crescente presa di coscienza di chi acquista, comunicare il proprio impegno nei confronti della sostenibilità è ormai divenuta la norma per qualsivoglia marchio moda. Al di là delle dichiarazioni di buona volontà e di cifre anche consistenti messe in campo per avviare processi di riciclo e circolarità – the elephant in the room – è il modello di business che prevede sempre e comunque l’aumento all’infinito di produzione e consumo.

Separare la crescita di redditività da quella dei volumi prodotti è invece più che mai necessario. Siamo di fronte a una sfida, che prevede l’utilizzo di nuove tecnologie, le infrastrutture necessarie per abilitare questi processi e il monitoraggio della riposta dei consumatori: una variabile per sua natura fuori dal controllo dei marchi.

La rivendita è una delle strade intraprese: sono molti e di prima fila i marchi che proprio di recente hanno cominciato a organizzarlo senza più reticenze e con metodi allo studio per salvaguardare se stessi e i loro potenziali acquirenti dalla piaga della contraffazione.

A questo proposito è recente – e assolutamente inaspettato tra concorrenti di norma acerrimi – l’accordo stipulato tra il primo gruppo del lusso al mondo LVMH e concorrenti diretti come Richmond e Prada per la gestione comune di Aura Blockchain Consortium, creata per verificare l’autenticità e la provenienza dei beni di lusso che vengono dotati di un’identità digitale unica basata su token non fungibili.

Altro percorso intrapreso è quello dell’affitto dei capi. Che a prima vista potrebbe sembrare più un sentiero che una strada, ma negli Stati Uniti è già più consueto che in Europa.

A ben guadare è un modello parallelo a quanto sta avvenendo per esempio nel settore automobilistico, dove l’affitto di un’autovettura anziché il suo acquisto è una pratica in netta crescita nei centri urbani e certamente congeniale ai più giovani rispetto a Baby Boomers e Generazione X.

Il pallino però non è solo in mano a chi produce. I giganti della distribuzione hanno – pure loro – cominciato a porsi il problema. Amazon ha di recente annunciato l’ampliamento del programma lanciato lo scorso settembre Climate Pledge Friendly con cui contrassegna prodotti che dispongono di almeno una certificazione rilasciata da organizzazioni che lavorano su questioni ambientali e sociali.

Nell’elenco Climate Pledge Friendly sono attualmente presenti migliaia di prodotti venduti negli Stati Uniti e/o nell’Unione europea.

È solo l’ultima mossa del più grande rivenditore online del mondo per ridurre il suo impatto ambientale: ne aveva già annunciate altre, come la promessa di emissioni nette zero entro il 2040, gli sforzi in via di attuazione per ridurre i rifiuti di imballaggio e la messa in strada di veicoli elettrici per il trasporto delle sue merci.

È pure un modo per attrarre una nuova generazione di potenziali clienti? Certamente sì: Amazon non dispone ancora (o non ha ancora diffuso?) dati sul tipo di impatto del Climate Pledge Friendly, ma l’effetto di queste scelte non può essere che positivo.

Che si tratti di carta igienica, t-shirt o laptop, che si tratti di acquirenti green o meno, il fatto che il più grande rivenditore elettronico del mondo aggiunga una funzionalità per offrire la possibilità di fare scelte sostenibili è un passo avanti.

Altrettanto positivo è che il programma incoraggia altri marchi a seguire le azioni di coloro che già ci partecipano, aumentando la visibilità degli schemi di certificazione con cui lavorano.

Il cambiamento si è messo in moto. Abbastanza velocemente da far fronte all’urgenza del clima, della biodiversità e delle crisi degli oceani che affliggono il pianeta?

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