Moda sostenibileLa rivendita non basta, il problema è la sovrapproduzione

I nuovi progetti basati sul resale dimostrano la sensibilità ai temi ambientali dell’industria del fashion. Ma non sono sufficienti. Anzi, alcune iniziative rischiano di tradursi in puro greenwashing se non dovessero portare a riduzione dei volumi di consumo

The RealReal fondato in California nel 2011 è un e-commerce di rivendita di capi di abbigliamento e in quanto tale si occupa solo ed esclusivamente di after market o second hand o resale. Insomma, di usato. Anche se quest’ultimo termine è molto anni ‘70, decisamente poverista e si addice poco alla crescente sensibilità che per questa categoria di prodotti mostrano i nuovi consumatori, quelli più giovani: i cosiddetti Millennial e Generazione Z.

Di e-commerce specializzati nel resale ne esistono ormai parecchi, ma The RealReal nel 2019 è stata la prima start up di questo genere ad aggiudicarsi una Ipo (offerta pubblica iniziale) da 300 milioni di dollari: segno inequivocabile che il fenomeno è in grande crescita. Dopo lo shock subito dal tessile- abbigliamento a causa della pandemia, molte aziende – anche nel segmento del lusso – si sono rivolte a The RealReal per la messa sul mercato degli invenduti: persino nomi universalmente noti come Gucci e Burberry.

Di recente The RealReal ha dato vita a ReCollection un programma che invita le maison a trasformare i capi danneggiati o consumati in nuovi capi di lusso. Qui i criteri stabiliti per mantenere lo spirito di sostenibilità in cui è radicato l’upcycling escludono la possibilità di utilizzare materiali vergini, l’assemblaggio deve prevedere rifiuti zero, devono essere pagati salari equi e la produzione non deve essere delocalizzata verso Paesi il cui unico pregio è il basso costo della mano d’opera.

Dall’1 aprile su ReCollection sono dunque apparsi marchi come Stella McCartney, Balenciaga, A-COLD-WALL, Dries Van Noten, Jacquemus, Simone Rocha, Ulla Johnson e Zero + Maria Cornejo. L’obbiettivo condiviso è quello di tenere più indumenti possibili fuori dal flusso dei rifiuti, dando inoltre priorità alla qualità e alla durata degli stessi.

Nel fashion design sensibile alla problematica ambientale hanno già trovato uno spazio che sarebbe apparso impossibile sino a dodici mesi fa. I nomi di Marine Serre, Collina Strada o Gabriela Hearst sono già assurti agli onori della cronaca, forse perché si sentono meno fedeli al sistema della moda come è stato costruito sin qui.

Meno conosciuti ma già sotto radar dei connoisseur ne avanzano altri come Thebe Magugu, Vaquera Gang, Patric DiCaprio e Bryn Taubensee, Claire Sullivan ed Eckhaus Latta. Tutti mostrano di essere per davvero interessati a limitare il potente impatto negativo sull’ecosistema  proveniente dalle produzioni di abbigliamento e accessori: sono attenti non solo a quel che sta accadendo intorno a loro ora, ma anche a  quello che verrà dopo.

La mossa di The RealReal di incorporare permanentemente l’upcycling nel suo modello di business riflette dunque la sempre più evidente preoccupazione ambientale delle nuove generazioni.

Ma è pure evidente che il suo impatto rappresenta solo la soluzione a una piccola frazione del problema. Perché la rivendita pubblicizzata come una via alla sostenibilità allo stesso tempo alimenta le vendite nel mercato primario: più persone infatti potrebbero essere disposte all’acquisto di un nuovi articoli se pensano che sarà possibile rivenderli più tardi su e-commerce come The RealReal, Poshmark o Threadup.

Gli analisti hanno messo in conto la possibilità che entro il 2030 un marchio di moda di lusso possa generare il 20% dei suoi ricavi dalla rivendita e, forse in modo ancora più convincente, che la rivendita di un articolo possa aumentare il suo margine di profitto del 40%.

La realtà è che iniziative come ReCollection rischiano di tradursi in puro greenwashing se si finge di non conoscere una verità ovvia di cui nessuno però vuole parlare: è la sovrapproduzione il problema più grande della moda. Di certo la pressione per il cambiamento sta aumentando, le iniziative si rincorrono, ma l’industria resta orientata all’aumento del consumo di nuovi prodotti, mentre i modelli di business circolari richiederebbero che i marchi separino la redditività dai volumi di vendita.

Al momento non esiste garanzia che modelli alternativi possano generare entrate sufficienti per compensare le diminuzioni di volume, ma per lo meno sono state individuate pratiche che è necessario abbandonare senza indugio. Come limitare il numero di collezioni immesse sul mercato (anche 12 ogni anno), una piaga inferta dai marchi del fast fashion che i produttori del lusso si sono trovati a inseguire con risultati che oggi vengono messi in discussione anche all’interno delle maison più potenti.

Difficile infatti con questo ritmo di proposte a getto continuo capire se si tratta di vendite regolari e di riduzioni di prezzo senza soluzione di continuità. E ancora fondamentale risulta essere la trasparenza dei processi produttivi: questi ultimi nella catena a ricaduta della façonne nella quasi totalità dislocate nei Paesi emergenti. Per spuntare sempre e comunque il prezzo minore spesso persino sconosciuto agli stessi marchi che commissionano le produzioni.

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