Fine vita, se possibile, maiLa moda circolare può dare un grande futuro anche al passato

Considerare i beni arrivati alla fine del loro ciclo non più come scarti bensì come risorse è la base della sostenibilità. Se questo vale per plastica, carta e metallo, è altrettanto vero per i vestiti usati, che stanno cominciando ad avere nuovi utilizzi (e nuovi proprietari)

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«Questa settimana tutto a 5 euro». Oggi la sostenibilità è a portata di app. Quando Natasha, 24 anni e i ricci neri, riceve una notifica così sul cellulare, se non ha troppi impegni un salto da Humana Vintage lo fa. È un negozietto di abiti usati a poco prezzo incastonato nel rione Monti, il quartiere bohémien della Capitale. In Italia ci sono altri sette punti vendita della catena, tutti con le gondole ricolme di giacche colorate e i foulard anni ‘90 in bella mostra. «Mi piace diano nuova vita ai capi invece di gettarli», racconta Natasha. Obiettivo raggiunto per Humana, che grazie alla filosofia del riutilizzo ha fatto dei suoi negozi un presidio della moda circolare.

La circolarità è un concetto che il fashion riprende dall’economia, spiega il coordinatore dell’Osservatorio Green Economy Edoardo Croci: «Alla base c’è l’idea che i rifiuti rientrino nel ciclo produttivo, così da azzerare gli scarti e creare nuove materie prime». Affinché ciò sia possibile anche nel settore moda è necessario un cambio di passo. Le aziende dovrebbero evitare i tessuti misti e prediligere i capi monofibra, più facili da riciclare. Chi compra, invece, dovrebbe farlo meno e meglio. L’obiettivo è minimizzare l’impatto ambientale dell’industria tessile, responsabile di un ingente consumo di acqua (secondo fonti europee, per produrre una maglietta ne servono 2700 litri) e del 10 per cento delle emissioni mondiali di gas a effetto serra. Per arginare i danni, dal 2025 l’Unione europea renderà obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Un obiettivo ambizioso per tutti i paesi membri e che l’Italia vuole raggiungere già nel 2022.

Quelle camicie color crema e i foulard di raso che tanto piacciono a Natasha sono il frutto di un’attenta selezione. È il motivo del successo di Humana, frequentato da un pubblico eterogeneo ma in prevalenza giovane. «Al nostro Paese destiniamo solo capi vintage – dice Karin Bolin, presidente di Humana People to People Italia – ovvero indumenti e accessori che abbiano almeno 30 anni». Non è così per il punto vendita Second Hand, dove invece la merce esposta risale agli anni più recenti. In negozio i vestiti arrivano tramite diversi canali. Possono essere portati di persona, spediti per posta o lasciati in appositi contenitori. Sono 5000, dislocati in 1.200 comuni italiani.

La quantità di abiti raccolti varia di anno in anno, mediamente si aggira attorno alle 22mila tonnellate. Se non adatti al nostro mercato, i prodotti in buono stato vengono spediti ai paesi nel sud del mondo, in cui Humana è impegnata con progetti di cooperazione internazionale. Tra il 2018 e il 2019, racconta la presidente, hanno destinato circa un milione e 500mila euro a iniziative di inclusione sociale. Una cifra impossibile da raggiungere l’anno seguente, quello della pandemia, che anzi ha provocato una perdita di guadagni del 30 per cento, dice Bolin.

Se un capo ci è venuto a noia, donarlo ai contenitori di Humana non è l’unica soluzione. Esiste anche la raccolta differenziata, come spiega Andrea Fluttero, presidente di UNIRAU (Unione Imprese Raccolta Riuso e Riciclo Abbigliamento Usato). In questo caso, gli indumenti vengono considerati rifiuti urbani, dunque raccolti dal comune. All’incirca, si contano 135mila tonnellate l’anno di scarti tessili. Una cifra esigua, considerando che annualmente i rifiuti urbani prodotti ammontano a 30 milioni di tonnellate. «Gli abiti vengono poi comprati dai selezionatori, aziende che dividono ciò che è riusabile da ciò che non lo è», dice Fluttero. Il riutilizzabile, circa il 40 per cento del totale, è destinato ai poli di Napoli e Prato, o esportato verso l’Est europeo, il Nord Africa e l’Africa Subsahariana. C’è “la crema”, in gergo i prodotti migliori, e poi a scendere le seconde e le terze scelte. «Il restante 60 per cento per noi è il vero problema», aggiunge però il presidente di UNIRAU. Perché è sui rifiuti non riusabili che i selezionatori giocano al ribasso.

Alcuni cercano di ricavarne il cotone per il pezzame industriale, altri invece caricano sulle navi la maggior parte del materiale. Un biglietto di sola andata verso l’India, racconta Fluttero, una soluzione rapida ma dannosa per l’ambiente. Qui infatti viene sfruttata mano d’opera a basso costo e le tecnologie utilizzate per la rilavorazione degli scarti tessili sono obsolete. Ecco perché, dice lui, «bisognerebbe privilegiare la strada del riciclo di qualità in Europa».

Con normative comuni e un ripensamento radicale dell’atteggiamento di aziende e consumatori è possibile. A patto che si produca meno e meglio, e che l’acquisto di abiti usati si diffonda pian piano più dello shopping di prodotti scadenti e a basso prezzo sfornati dal fast fashion, la moda veloce. La strada della sostenibilità non è lastricata di sole fibre naturali, a volte dispendiose perché necessitano di terreno e molta acqua, ma piuttosto di fibre sintetiche progettate meglio. In nome della legge delle tre “R”: ridurre, riusare, riciclare. Fine vita? (Se possibile) mai.

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