Nel corso degli ultimi anni ci siamo spesso interrogati se, a fronte della situazione di stallo in cui la politica e i governi si sono ritrovati nell’affrontare le complesse sfide per la costruzione di un futuro più equo, giusto e sostenibile, non potesse essere invece il mondo dell’impresa a indicarci la via promuovendo un reale cambio di paradigma.
E di fatti la risposta che in molti ci siamo dati è sempre stata affermativa. E non solo perché convinti che presto o tardi verranno messe fuori mercato tutte quelle aziende che invece seguiteranno nella corsa al profitto senza scrupoli distruggendo il Pianeta e sconvolgendo le società umane nel tentativo di perseguire soltanto il vantaggio proprio o del proprio settore. Ma anche per una decisiva ed evidente mappa di segnali in tal senso che provengono sia dal mondo produttivo per il tramite di aziende e imprese sempre più virtuose, sia dall’enormemente variegato mondo del consumo.
Certo, e bisogna dirlo con chiarezza, siamo ancora in un periodo di transizione. Sia i produttori sia i consumatori sono divenuti molto più sensibili, ma non sono ancora sufficientemente informati e preparati a comprendere il reale potere dei singoli atti quotidiani di acquisto i quali rappresentano una vera e propria forma di voto politico e sociale.
Un consenso che in pratica esce dalla sfera immateriale della preferenza o del gusto per incarnarsi in uno strumento capace di decidere le sorti di questo o quel prodotto, di questa o quella azienda. Sappiamo che tra le generazioni più giovani sono già in molti ad avere acquisito e fatto proprie politiche di consumo basate proprio su questa consapevolezza e che anche le generazioni meno giovani iniziano ad approcciare l’argomento con una certa curiosità.
Tuttavia, purtroppo il cambio di paradigma non è ancora avvenuto e il mondo, un certo mondo, persevera nel condurre i propri affari sulla scorta della vecchia sentenza “mors tua, vita mea”, un alibi dietro al quale si nasconde quel certo gusto all’inerzia, a restare nel solco già tracciato e quindi sicuro, quella determinazione a non volersi impegnare in prima persona e insieme agli altri attori nell’esplorare modalità alternative, diverse, altre, che non debbano necessariamente essere costruite su un triste cumulo di altrui fallimenti e avanzare voltando le spalle a un lascito di cadaveri.
Mi ha profondamente colpito, nel dibattito globale scatenato dalla attuale crisi dei microchip derivata sia dall’esplosione della richiesta che si è verificata in questi tempi di pandemia sia dalle tensioni tra Cina e Stati Uniti, un passaggio di un servizio pubblicato dal magazine di lingua inglese Nikkei Asia.
In questo passaggio il presidente della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, la più grande fabbrica indipendente si semiconduttori al mondo, dice che «prima si decideva quali chip produrre in base alle richieste che arrivavano», mentre in questo caos la concorrenza già molto accesa si è fatta addirittura spietata. «Stiamo dicendo ai nostri fornitori di non fornire i chip ai concorrenti più piccoli e offriamo più soldi per assicurarcene una quantità maggiore – aggiunge un dirigente del settore informatico – è come se tutti pensassero: se non posso averne abbastanza allora nessuno deve averli, tanto meno i miei rivali».
Che siamo di fronte a una crisi più grave di quella scatenata dalla pandemia oppure che si tratti di una enorme bolla gonfiata da un eccesso di offerta a sua volta generato dalla forte domanda, non è ambito in cui mi interessa entrare. Mi interessa piuttosto indagare se vi siano alternative percorribili ad alienare queste pratiche volte ad accaparrarsi quantità esagerate di prodotti per il solo motivo precauzionale e non per una reale esigenza, pur nella consapevolezza che nel farlo si finisce con lo schiacciare inesorabilmente gli altri attori che ostinandoci a chiamare concorrenti dipingiamo con colori ostili.
I periodi di eccesso di domanda non durano per sempre, soprattutto nel caso dei microchip visto che è poco probabile che ogni individuo inizi a comprarsi tanti telefoni o tante macchine, non accadeva prima tantomeno accadrà oggi con i tempi di magra, ma nel frattempo molte aziende del settore potrebbero fallire poiché escluse dalla filiera dell’approvvigionamento. Inutile anche tratteggiare il circolo vizioso che queste pratiche innescano con le inevitabili ricadute sull’occupazione e sull’economia reale. Basterebbe solo chiedersi alla fine a chi venderanno i loro prodotti le aziende che soffocando il mercato soffocano la società?
Eppure, la stragrande maggioranza delle giovani generazioni ritiene che le multinazionali abbiano il potenziale per contribuire a risolvere le sfide economiche, ambientali e sociali che abbiamo di fronte. Tutte le aziende dovrebbero avere un po’ più di coraggio nel ripensare le proprie legacy e i propri modelli di business verso una direzione nuova da percorrere, quella di un’economia che rimetta al centro di tutto il sistema la persona.