Come ha fatto un ragazzo nato e cresciuto in una guarnigione militare nelle campagne intorno a Mosca – papà tecnico militare, mamma funzionaria – a diventare protagonista di copertine di riviste internazionali e destinatario di lettere di solidarietà firmate da premi Nobel e star di Hollywood, trasformandosi in nemesi di un autocrate al governo da vent’anni, armato solo di un iPhone e di un account Twitter?
Una carriera da manuale della propaganda, che verrà insegnata ai corsi per i leader del futuro, come quelli che lo stesso Navalny aveva frequentato a Yale: dalla politica «classica» offline all’online e ritorno, per far coesistere piazza e Rete, prigione vera e trionfi digitali, rompendo l’isolamento snobistico del dissenso elitista per diventare un fenomeno di massa.
È il primo vero politico 2.0, probabilmente su scala globale, e segue lo stesso percorso del suo coetaneo Volodymyr Zelensky: l’uomo diventato presidente dell’Ucraina in un’elezione trionfale in cui era difficile distinguere se gli elettori avessero mandato al governo il famoso attore comico o il suo personaggio del presidente per caso della sua serie tv Servo del popolo.
Come Vladimir Lenin aveva brevettato l’idea di un partito che nasceva da un giornale «agitatore, propagandista e organizzatore collettivo», così Navalny è un nativo digitale, impossibile da immaginare in un mondo senza Internet. Della comunicazione in Rete possiede la rapidità, la semplicità e la sinteticità: in un’altra vita sarebbe stato forse un genio del marketing, con una capacità di trasmettere messaggi chiari, facili da memorizzare e spiritosi. Ma è nato sotto il putinismo.
I suoi slogan diventano parole d’ordine politiche e tormentoni mediatici. Come quello che definisce Russia Unita il «partito dei ladri e dei cialtroni» contro il quale bisognava votare alle elezioni alla Duma del 2011: un’idea semplice che ha coalizzato il voto di protesta diffuso e ha tolto – per la prima e l’ultima volta – la maggioranza assoluta alla lista putiniana. Tutte le piazze russe scandiscono ormai il mantra navalniano «Il potere qui siamo noi», e portano in corteo gli scopini per il wc ispirati a quello da 700 euro che Navalny ha scovato nella sua indagine sul palazzo di Putin; così come gli anatroccoli di gomma gialla, che alludono alla casetta per le anatre in mezzo al lago privato della dacia dell’ex premier Dmitry Medvedev (una delle inchieste più celebri della Fondazione per la lotta alla corruzione di Navalny).
In questa cultura del meme, l’anatroccolo è diventato uno dei simboli principali della protesta: le paperelle gialle da cartone animato sciamano per lo schermo delle dirette YouTube e occhieggiano da adesivi, calzini e cover per l’iPhone (la Fondazione è fidelizzata Apple, niente telefoni cinesi) nello shop di Navalny. Gadget «per riconoscersi in mezzo alla folla e capire che in realtà siamo tanti».
Ma servono anche a spiegare un principio da usare come bussola per navigare nella nebbia della propaganda: «Se sembra un’anatra, cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra», predica Navalny ai suoi fan, in una sorta di rasoio di Occam semplificato, che rende l’anatroccolo giallo dal musetto corrucciato una Angry Duck, un supereroe cartoon della resistenza al regime.
Il merchandising del dissenso è solo una delle tante invenzioni di un rottamatore di metodi e modelli, un personaggio in 3D il cui messaggio si trasmette nei gesti, nel look e nel vocabolario. Il problema delle elezioni non sono solo i politici, sono soprattutto gli elettori; e Navalny non solo forgia il linguaggio – anche chi non lo ama finisce spesso per copiare i suoi modi di dire, la sua terminologia, la sua comunicazione – ma parla come il suo popolo, come Putin nel 1999, ed è l’opposto di Putin come Putin vent’anni fa lo era di Eltsin.
Classe 1976, rappresenta gli elettori (il giorno che verrà ammesso alle elezioni) che l’Unione sovietica la ricordano appena, e non la rimpiangono per nulla: «Mi ricordo che eravamo sempre a fare le code», spiegherà in un’intervista. Laurea in giurisprudenza in un’università moscovita non troppo prestigiosa, abita in un trilocale a Maryino, casermoni in estrema periferia diventati negli anni Novanta il primo quartiere abitato da una giovane classe media, quella che – per la prima volta nella storia – le case non le otteneva dallo Stato, ma le comprava. Il primo esempio di gentrificazione post sovietica.
Ha una famiglia modello, due bellissimi figli biondi e una moglie molto affascinante ma non troppo appariscente, però tenace (in un’intervista confesserà che è Yulia la «vera radicale della famiglia») e discretamente inserita nel ruolo della compagna fedele del marito carismatico.
Coetanei, si sono sposati giovanissimi come da tradizione sovietica, e mostrano in pubblico una complicità e una tenerezza da coppia del Duemila, entusiasmando le «Tik-Toker» che considerano i Navalny una storia d’amore da sogno. Abitare a Maryino, portare polo Lacoste, avere un’auto di marca asiatica di medie dimensioni, farsi i selfie in pizzeria e andare in vacanza in Thailandia o sul Mar Baltico: Navalny ha scommesso sull’immagine di un ragazzo della porta accanto, un self made man della provincia, uno che non doveva niente a nessuno e non si sentiva vittima di nulla.
Non un ex del regime precedente, come Eltsin e Putin. Non un oligarca che era stato l’uomo più ricco del Paese, come Khodorkovsky. Non un intellettuale come Kasparov o un liberale come Nemtsov. Niente di tutto ciò. Semmai, un borghese, un professionista che non si atteggia a intellettuale, che parla un inglese spedito ma non ricercato, e che vive in mezzo al popolo che rappresenta, in un caseggiato multipiano uguale a decine di altri sparsi nell’immensa periferia della capitale. Ecco la sua forza.
L’anti populista
Questa apparente semplicità, unita alle sue denunce della corruzione, può fare pensare a un populista, ma Navalny è privo di molti dei tratti caratteristici del populista classico. Non ha nostalgia di un passato glorioso, sogna semmai un futuro normale: il suo discorso è tutto rivolto alla «splendida Russia del futuro» che invoca di continuo, mentre il rimpianto per il passato lo lascia al suo avversario al Cremlino.
Non è un imprenditore della paura che alimenta l’odio e il vittimismo e suscita desiderio di protezione: insieme al suo mentore, l’economista liberale Sergey Guriev, teorizza che la libertà, la concorrenza e la garanzia dei diritti basteranno a innescare un meccanismo virtuoso che porterà la Russia alla democrazia e a un mercato non dominato da monopoli e corruzione.
È contrario a invasioni e imperialismi: ha appoggiato la rivoluzione europea Maidan a Kiev e condannato la guerra nel Donbass, una presa di posizione che all’epoca aveva pagato con la perdita di un terzo dei suoi follower. Eppure oggi i suoi seguaci scendono in piazza con il finora sacrilego cartello «La Crimea non è nostra».
Di padre ucraino, è fiero di essere cittadino russo, ma usa parole inglesi con la stessa frequenza e disinvoltura dello slangdegli hipster di Mosca e Pietroburgo, e sostiene che si diventa «grande potenza» grazie a strade, pensioni, università e ospedali decenti, non a colpi di missili e carri armati.
Non è aggressivo, non ha mai la bava alla bocca, ma un’ironia tagliente, irriverente e piena di citazioni post- moderne: infila nelle sue video-inchieste sulle tangenti fotogrammi dei manga giapponesi e paragona il capo della Guardia nazionale Zolotov – ex bodyguard di Putin promosso a generale e decorato con una moltitudine di mostrine, medaglie di battaglie mai combattute e passamanerie dorate – al Dittatore di Sasha Baron-Cohen.
Soprattutto, non incute paura o timore reverenziale; anzi, fa ridere e ride insieme al suo pubblico, in quella risata che seppellisce la paura. Ha imparato da Harry Potter che avere paura del nemico lo rende più temibile, e ride perfino nelle aule del tribunale: ride circondato di poliziotti e giudici, ride con le manette ai polsi, e sorride dolcemente mentre disegna per sua moglie che piange un cuoricino sul vetro della gabbia dell’imputato. Ecco un altro gesto che diventerà un meme, una gif e un manifesto nel giro di pochi minuti.
Navalny non è mai enfatico, non mette esclamativi e non alza la voce. È ironico e pratico, si prende sempre in giro e insieme alla sua generazione, diventata adulta in un mondo post ideologico, considera i toni altisonanti di cattivo gusto: «Adesso girerò la manopola del pathos al massimo», avverte quasi con imbarazzo nel suo ultimo discorso davanti al giudice, prima della condanna alla prigione, nel quale poi va a citare gli «straordinari filosofi contemporanei»: Luna Lovegood di Harry Potter («Non devi mai sentirti solo, il nostro Voldemort nel palazzo lo vorrebbe»); Rick Sanchez dei suoi cartoni animati preferiti Rick&Morty («La vita è un rischio, se non rischi sei solo un mucchietto moscio di molecole che fluttuano nell’Universo»); ma anche Aleksandr Solzhenitsyn («Quanto sarebbe bello vivere non secondo la menzogna») e la Bibbia («Beati coloro che sono assetati di verità e giustizia perché verranno saziati»), salvo poi ricordare che i suoi stessi collaboratori lo prendono in giro per la sua fede cristiana. La manopola del pathos viene di nuovo girata al minimo.
Un messaggio perfetto, che colpisce al cuore i giovani, in quella spaccatura generazionale che vede in Alexey Navalny il leader delle nuove generazioni che chiedono agli anziani nostalgici di restituire loro il futuro.
Ma si appella anche ai princìpi morali di quelli che si ricordano ancora il dissenso storico, e ai moderati per i quali la fede ortodossa ha sostituito gli ideali di «bontà» che perfino molti anticomunisti attribuiscono al passato sovietico. Un discorso pronto a venire smembrato in meme, stories di Instragram, tweet e rap, apparentemente semplice e denso di allusioni e sfumature che gli analisti si possono ingegnare a svelare.
Fino al gran finale, nel quale riscrive il classico slogan «La Russia sarà libera» affiancandogli – dopo una stilettata alla letteratura classica russa «piena di sofferenze», che ribalta due secoli di slavistica – il proclama «La Russia sarà felice»: una carica di ottimismo che rappresenta un’altra svolta rispetto al discorso classico di tutte le rivoluzioni della storia russa.
Non ha problemi, Alexey, a riconoscere il suo Paese come arretrato, povero e ridicolo. Ne racconta la corruzione e lo sfacelo, infrastrutturale e sociale, con rabbia, ma senza disperazione. Si rifiuta di considerarlo una maledizione del destino.Vuole una Russia che si avvicini all’Occidente, si ispira a un «modello europeo» che però non vede come la terra promessa e irraggiungibile: si tratta di mettersi al lavoro e costruirlo, imparando dall’Europa dove serve, senza complessi di inferiorità o superiorità.
Senza cioè quella divisione del mondo in «noi e loro» che – in positivo o in negativo – ha segnato la tragedia russa da quando Pietro il Grande tagliò le barbe ai boiardi e spedì i loro figli a studiare in Olanda e Germania. La discussione si sposta dal metafisico al terreno, dall’ideale al pragmatico, dall’esaltazione alla normalità, quella condizione che russofili e russofobi hanno sempre negato alla loro patria, e che forse resta la più agognata: la risposta classica al «Come va?» in Russia non è mai «Bene», decisamente troppo ottimista per la storia nazionale, ma Normalno, insomma, senza esagerare, per il verso giusto.
da “Navalny contro Putin. Veleni, intrighi e corruzione. La sfida per il futuro della Russia”, di Anna Zafesova, Paesi Edizioni, 2021, pagine 160, euro 17