Una censura stretta e vincolante. E nessuna protezione. È questa la sorte toccata al mondo accademico di Hong Kong a causa delle scelte delle autorità cinesi. A denunciarlo è un articolo dell’Atlantic, che porta alla luce le paure e i timori del corpo accademico della più antica università della città.
Tutto ha inizio il 30 giugno 2020, quando il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, il massimo organo legislativo cinese, ha approvato all’unanimità una nuova legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong che è entrata in vigore nel territorio lo stesso giorno, poco prima di mezzanotte. La legge è pericolosamente vaga e ampia: in base alle disposizioni, potrebbe essere considerata una minaccia alla “sicurezza nazionale” praticamente qualsiasi cosa.
Per tale motivo, anche i professori, gli studenti e i ricercatori si sentono minacciati: l’università di Hong Kong ha infatti interrotto i legami con il sindacato degli studenti, rilasciando dichiarazioni contro il gruppo di attivisti che ricordano molto il linguaggio usato dal Partito comunista di Pechino.
Un incontro avvenuto a maggio ha poi confermato il clima di tensione che aleggia intorno all’ateneo: i dirigenti del polo universitario hanno ammesso di essere stati colti alla sprovvista dalla velocità e dall’ampiezza della repressione in tutta la città, mentre studenti e professori hanno constatato che l’Università molto probabilmente non fornirà loro un’assistenza legale in caso di arresto per presunta violazione della legge.
Le nuove regole impongono alle università di “promuovere” la sicurezza nazionale. E così negli atenei di Hong Kong, otto dei quali sono finanziati con fondi pubblici, stanno crescendo le preoccupazioni per quanto le autorità faranno nella loro campagna di sradicamento dell’opposizione e di costituzione di una plancia di comando di matrice cinese.
«Secondo dieci membri di facoltà, le preoccupazioni includono la libertà accademica e l’autocensura, la conservazione e il reclutamento del personale e il benessere degli studenti», si legge nell’articolo.
La leadership di queste istituzioni, molte delle quali sono altamente classificate a livello internazionale e godono di relazioni con università estere, ha fatto poco per supportare studenti o docenti. Anche quando le proprie organizzazioni e il proprio personale sono stati presi di mira da legislatori e media statali.
«Stiamo tutti seduti a parlarne, ma non abbiamo risposte da dare», ha detto un professore della Hong Kong Baptist University, che a febbraio ha improvvisamente annullato una mostra fotografica che includeva immagini delle proteste del 2019.
Per capire l’appiattimento intellettuale: cinque direttori universitari l’anno scorso hanno firmato una lettera, anticipando la legge sulla sicurezza nazionale, per dare il loro sostegno alla legislazione prima ancora che fosse resa pubblica. «Questa mossa ha messo in luce uno degli aspetti più preoccupanti delle minacce nel campus, e all’interno del mondo accademico in generale: gli ordini di marcia per sopprimere le libertà vengono diligentemente eseguiti non dalla polizia o dalle autorità, ma da alcuni colleghi e persino dagli studenti. Per esempio: sono molte le testimonianze che raccontano di studenti laureati alla Hong Kong University che hanno segnalato i membri della facoltà più vicini alle fronde attiviste», si legge ancora sull’Atlantic.
«Penso che sia una cosa molto, molto particolare e interessante, perché è come se ciò che sta erodendo la libertà accademica non fosse fuori dall’università. Non è un corpo estraneo», ribadisce Peter Baehr, ex professore alla Lingnan University di Hong Kong. «Perché gli attori più repressivi sono gli stessi professori degli atenei», svela ancora Baehr all’Atlantic.
A essere minato, oltre lo spirito delle università stesse, è anche il simbolo storico che gli atenei hanno impersonificato per molto tempo. Dopo che Hong Kong fu restituita alla Cina infatti, nel 1997, Pechino sembrò concepire la funzione delle università principalmente nei termini del loro «contributo allo sviluppo nazionale, del loro ruolo stabilizzatore a Hong Kong e nel continente e come istituzioni per trasferire istruzione all’élite della città», scrive il magazine americano.
Ma l’eredità coloniale delle università ha portato a tensioni con la visione di Pechino. I funzionari della Cina hanno in poco tempo cercato di imporre la propria visione di istruzione tra gli istituti di Hong Kong, prendendo di mira il settore con riforme di tipo nazionalista. L’obiettivo era quello di creare una popolazione più patriottica, meno incline a respingere la crescente influenza e l’interferenza di Pechino.
Sforzi che sono stati accolti con una feroce resistenza da parte di studenti e genitori. Le proteste scoppiate nel 2012 sono state infatti uno scudo della popolazione di Hong Kong per frenare la proposta di portare in classe un maggior insegnamento della cultura cinese.
L’idea è stata infine accantonata, ma non prima di aver dato vita a una schiera di leader studenteschi anti Pechino. Tra tutti Joshua Wong, che due anni dopo aver cavalcato le proteste per la riforma dell’istruzione è diventato noto a livello globale come uno dei leader del Movimento degli ombrelli.
Adesso, però, la resistenza a Pechino è molto più difficile. Wong è in prigione, accusato in base alla legge sulla sicurezza nazionale. La riforma dell’istruzione primaria e secondaria prima contrastata, adesso sta sempre più prendendo forma. Mentre i campus universitari, che nel 2019 sono stati hub di resistenza, adesso sono nidi di spie e di informatori del governo cinese.
E se qualcuno prova ancora a far luce sulla grave situazione vigente, il partito interviene, e piega le istanze a suo favore. Come nel caso del vice-cancelliere Rocky Tuan che, dopo aver rilasciato una dichiarazione in cui esortava la polizia a indagare sulle denunce di uso improprio della forza e aver tentato di mediare tra polizia e manifestanti durante alcuni scontri nei pressi dei campus, ha dovuto fare una brusca marcia indietro.
Lo stesso Tuan lo scorso giugno si è infatti unito ad altri quattro direttori universitari per sostenere la legge sulla sicurezza nazionale. Il messaggio è chiaro, spiega un assistente universitario dell’ateneo centrale: «Qui non c’è dibattito, qui non c’è democrazia».
Prese insieme, queste persistenti preoccupazioni sulle nuove restrizioni porteranno a «uno smorzamento dell’interscambio accademico, del discorso accademico, della ricerca accademica», spiega Robert Quinn, direttore esecutivo Scholars at Risk Network, un gruppo di advocacy con sede alla New York University. «Questo non farà altro che erodere la qualità e la reputazione delle università di Hong Kong. Anche se», ha concluso Quinn, «a Pechino non sembra importare».