AnnyeonghaseyoCosì la Corea del Sud ha battuto il Giappone nella guerra del soft power

Nella gara alla coolness, Seul si è trovata in una posizione di vantaggio rispetto a Tokyo grazie alla musica e al cinema. E l’Oscar come miglior film straniero a Parasite è stata la consacrazione. Un estratto di “Sotto lo stesso cielo”, il libro di Giulia Pompili

di Yeo Khee, da Unsplah

I Giochi olimpici sono l’operazione di diplomazia pubblica più tradizionale che c’è, ma anche particolarmente delicata. E gli esempi più recenti di Giappone e Corea del Sud non sono esattamente di successo.

Eppure l’ostinazione è ammirevole: ad aprile 2021 la città di Seul ha inviato al Comitato olimpico internazionale la richiesta di ospitare insieme con la Corea del Nord i Giochi olimpici estivi del 2032. Secondo diversi analisti, però, non si tratta di una vera scommessa organizzativa ma del tentativo di riaprire un dialogo costruttivo con Pyongyang, che per l’intero periodo della pandemia ha praticamente serrato i confini e chiuso ai negoziati di qualsiasi livello. Se davvero partirà prima o poi la macchina organizzativa è presto per dirlo.

L’aspetto più interessante della faccenda, però, è che rispetto al Giappone, Seul in questo momento si trova in una posizione privilegiata. Dal punto di vista della politica internazionale la Corea del Sud è corteggiata sia dall’America sia dalla Cina, ed entrambe le potenze la vorrebbero come «alleato strategico».

Ma soprattutto a livello di diplomazia pubblica – o meglio, di soft power – la strategia del «Cool Japan», lanciata dall’ex primo ministro Shinzú Abe per far riappassionare il mondo al Giappone, a parte il turismo, finora ha dato pochi frutti. E invece la coolness della Corea del Sud è inarrestabile.

Secondo la Treccani, l’espressione «soft power» è stata coniata
negli anni Novanta del XX secolo dallo scienziato politico statunitense Joseph Nye per definire l’abilità nella creazione del consenso attraverso la persuasione e non la coercizione. Il potenziale d’attrazione di una nazione, infatti, non è rappresentato esclusivamente dalla sua forza economica e militare, ma si alimenta attraverso la diffusione della propria cultura e dei valori storici fondativi di riferimento.

Cibo, lifestyle, cultura, sport e, negli ultimi mesi, anche la gestione della pandemia, sono gli ingredienti che sia la Corea del Sud sia Taiwan hanno imparato a sfruttare meglio per raccogliere consensi all’estero.

I due paesi sono poi molto simili: entrambi hanno a che fare con una minaccia esistenziale da decenni, entrambi hanno puntato tutto sull’evoluzione economica e tecnologica, entrambi hanno una specie di ossessione per il proprio sistema democratico.

Ma c’è una differenza macroscopica tra Seul e Taipei: mentre per Taiwan il soft power è diretto da Taipei, cioè indirizzato secondo degli standard precisi per promuovere l’identità taiwanese, il governo di Seul da una decina d’anni rincorre un soft power che è esploso indipendentemente dagli obiettivi istituzionali, insomma un soft power inconsapevole. La chiamano la K-wave, l’onda coreana.

Quando “Parasite” nel 2020 ha vinto il premio Oscar per il miglior film, mai assegnato fino ad allora a un lungometraggio non in lingua inglese, gran parte del pubblico del Dolby Theatre di Los Angeles probabilmente non aveva mai visto una pellicola in lingua coreana – che all’ascoltatore distratto oppure poco avvezzo all’idioma della penisola suona un po’ come una lamentela.

Eppure, mentre il film del regista coreano Bong Joon-ho trionfava, i colossi dello streaming come Netflix già da tempo si erano accorti dell’incredibile successo che stavano avendo, praticamente ovunque, dall’America all’Europa fino al Sudest asiatico, le serie tv coreane.

Annyeonghaseyo è la parola che si sente dire più spesso, vale per «ciao», «buongiorno», «buonasera» e anche «come stai», ma va pronunciata con una lunga vocale finale «ooo». Nel giro di pochi anni, grazie alla musica e alle serie tv, la parola annyeonghaseyo è diventata il nuovo konnichiwa, il «ciao» in lingua giapponese.

Alla cultura coreana sta accadendo quello che è successo a quella giapponese negli anni Novanta: lentamente, grazie a un soft power fatto quasi esclusivamente di elementi d’intrattenimento o artistici – libri, film, serie tv, e soprattutto musica, musica, musica, il famoso K-pop, il pop coreano – la Corea del Sud sta entrando nel regno dei grandi festival cinematografici, degli Oscar, degli International Booker Prize, dei Grammy Awards – dove si sono esibiti per la prima volta nel 2020 perfino i BTS, prima band coreana della storia.

“Parasite” è stato la consacrazione di questa trasformazione. Ed è piaciuto anche perché è una storia universale, però raccontata bene, come i coreani hanno imparato a fare forse anche grazie a una produzione che voleva essere letta, guardata e ascoltata anche all’estero, non solo da un pubblico interno.

Il film parla di una truffa, di una famiglia accomodata sul welfare di Stato che finisce per trarre vantaggio con l’inganno da una famiglia benestante, insomma l’arte di arrangiarsi unita ai più biechi istinti umani. Mostra il divario che si è costruito tra due mondi che fanno fatica a comunicare tra loro.

Ma “Parasite” è anche una storia emblematica in Corea del Sud, e tutti i dettagli sono reali. Quello che per noi è sopra le righe, affettato ed esotico, succede davvero. Se ne è discusso parecchio sui giornali e sui blog in Corea, perché più di altri Bong Joon-ho ha parlato alla società contemporanea sudcoreana.

L’ossessione per lo studio, quella per la connessione a Internet, il rigore nei ruoli sociali, la gara ai tutor scolastici, agli hobby. C’è sullo sfondo il problema abitativo, che in una megalopoli come Seul è fondamentale (ci sono troppo poche case, e i prezzi sono troppo alti) ed è una questione che fa saltare ministri, che determina le politiche di un intero governo. C’è il problema della disoccupazione, e le idee concepite davanti a un bicchiere di liquore tradizionale (si chiama soju) che è quello che costa di meno perché è l’unico alcolico non tassato, e magari si beve in un hof, un termine introdotto recentemente nel coreano per descrivere quei posti dove si va a bere e mangiare, con i tavolini in mezzo ai vicoli.

Perfino con i noodle istantanei Bong Joon-ho ha fatto un ritratto della società sudcoreana: «C’è un momento del film in cui la ricca casalinga interpretata da Cho Yeo Jeong interrompe un viaggio in macchina verso casa con suo marito e i suoi due figli per telefonare alla sua governante, l’attrice Jang Hye Jin» ha scritto sul «Los Angeles Times» Margy Rochlin, «e ordinarle di dirigersi nella loro cucina high-tech e preparare una pentola di ram-don. “Che diavolo è il ram-don?” chiede a voce alta la governante. E così, la preparazione di un piatto misterioso diventa il centro della tensione».

Dal momento in cui è uscito il film, YouTube si è riempito di tutorial per farsi il proprio piatto di ram-don, solo che ram-don (una crasi tra ramen e udon, due piatti tipici dell’Asia orientale) è una parola che non esiste, inventata nel corso della traduzione in inglese. Nella versione originale, in realtà, la padrona di casa chiede alla serva di preparare il jjapaguri.

È la parola che viene dall’unione di due famose marche di spaghetti istantanei coreani, Jjapaghetti e Neoguri, ed è una di quelle cose che noi definiremmo «cibo spazzatura» e che mangiano i ragazzini.

La ricca casalinga chiede di preparare proprio quel piatto per compiacere il figlio, ma come ha spiegato il regista Bong Joon-ho, lo ha fatto anche perché, nel suo stereotipo, il jjapaguri lo mangiano i poveracci. Ed è per questo che, per farlo meno da poveracci, ci fa mettere sopra i cubetti di controfiletto.

da “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, di Giulia Pompili, Mondadori, pagine 252, euro 18

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