«Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Può sembrare strano dover scomodare la nostra Costituzione per parlare di cucina, ristoranti, tempo libero. Ma l’Articolo 3 diventa un punto di riferimento quando si parla di discriminazione, di ogni genere.
È notizia recente che un ristorante, l’ennesimo, ha chiuso le porte ai bambini. Sono fastidiosi, rumorosi, rovinano l’atmosfera. Insomma: sono un problema e come tale vanno rimossi. Del resto sono sempre più numerosi i locali che serrano i battenti ai minori di 14, ristoranti, ma non solo, anche pizzerie, agriturismi, hotel, resort, forti del sostegno di quegli adulti che vogliono stare in santa pace, solo tra adulti. Inutile dire che, come sempre accade in Italia, si sono formate due opposte tifoserie “da stadio”, da una parte i fautori del child free, dall’altra le famiglie con bambini. Ma forse è proprio da questa logica che occorrerebbe uscire, ponendo alcune domande. Innanzitutto: è legale vietare l’accesso ai bambini a un pubblico locale?
Cosa dice la legge: attenzione alle discriminazioni
“Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del Codice penale, gli esercenti non possono, senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo”. Così recita l’articolo 187 del TULPS, Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. Quindi, in breve: no, non è legale escludere a priori una categoria di persone da un pubblico esercizio, e per pubblico esercizio si intendono pensioni, alberghi e ovviamente ristoranti. Nello specifico l’articolo 689 dice che: “L’esercente un’osteria o un altro pubblico spaccio di cibi o di bevande, il quale somministra, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, bevande alcoliche a un minore di anni sedici, o a persona che sappia affetta da malattia di mente o che si trovi in manifeste condizioni di deficienza psichica a causa di un’altra infermità, è punito con l’arresto fino a un anno”. Quindi nessun ristoratore o albergatore può rifiutarsi di servire un cliente. «Fatto salvo quanto disposto dal codice penale – spiega l’avvocato Fabio Biffi – l’interpretazione dell’espressione “legittimo motivo” deve essere valutata considerando i diritti tutelati dalla nostra Costituzione: il divieto non deve essere discriminatorio. Non può quindi essere considerato legale il fatto di vietare ai bambini l’accesso a un ristorante per il semplice fatto che possano infastidire altri clienti con la loro semplice presenza». Si tratterebbe infatti di un motivo discriminatorio. Un po’ come escludere a prescindere gli anziani, o gli stranieri. «Diverso è il discorso – continua l’avvocato Biffi – quando il divieto si riferisce a una sola area di un albergo, come una SPA, o a una parte riservata di un locale».
Cosa dice il buon senso: le buone maniere sono importanti a ogni età
Se la premessa, dunque, è che vietare l’accesso ai bambini in quanto tali è illegale perché discriminatorio, ci sono altri aspetti da analizzare. I puristi dell’“adult only” motivano la loro necessità di escludere i più piccoli parlando di schiamazzi, corse fra i tavoli, volume troppo alto di tablet e smartphone. Insomma, mancanza di educazione. Responsabili, senza alcun dubbio, sono i genitori. Ma viene da chiedersi perché lo stesso rigore nella ricerca delle buone maniere non viene applicato quando si parla di adulti. Tavolate di schiamazzanti quarantenni che coinvolgono gli altri avventori nelle loro discussioni e nei loro festeggiamenti sono meno fastidiose? Le intemperanze di un cinquantenne che pretende a viva voce l’impossibile da un cameriere, recando disturbo al prossimo, sono da preferire al capriccio di un piccolino? Forse dovremmo tutti cercare di comportarci decorosamente in pubblico, come ci insegnavano le nostre nonne, visto che i genitori sono ormai palesemente bollati come incapaci. Non sarebbe più semplice lasciar entrare i bambini e pregarli di rispettare gli altri ospiti del locale solo se diventano fastidiosi? Come si farebbe con qualsiasi altro cliente. E ancora: non si può chiedere ai genitori del pargolo di abbassare il volume del tablet sintonizzato su Peppa Pig come si farebbe con un adulto che parla a voce troppo alta al telefono? Insomma, in un contesto civile ci si può civilmente venire incontro. Magari cercando proprio di cogliere l’occasione di una cena fuori per spiegare qualche regola di bon ton ai bimbi.
Cosa dice la psicologia: evitiamo l’effetto branco
C’è infatti un altro aspetto da considerare: scegliere sempre e solo locali “per famiglie”, attrezzati con aree gioco, gonfiabili, palline e campetti per i bambini può avere un effetto deleterio. Ghettizzati, in un certo senso, i bimbi si abituano solo a stare in ambienti a misura di bambino. E mai imparano a comportarsi come si deve in un contesto sociale. L’apprendimento, sottolineano gli educatori, passa anche attraverso l’imitazione di modelli. Non si può imparare come comportarsi al ristorante, se mai si frequenta un ristorante “per grandi”. Non solo: i bambini che si trovano sempre e solo in locali in cui sono autorizzati a giocare liberamente saranno portati a giocare altrettanto liberamente anche in altri contesti.
Cosa dicono i bambini: siamo sicuri che ci vogliano andare?
In tutto questo parlare non abbiamo dimenticato di chiedere un parere anche ai diretti interessati. No, non i ristoratori. E nemmeno le famiglie. I grandi hanno già detto abbastanza, le loro opinioni sono chiare. E i piccoli cosa pensano? Abbiamo chiesto a qualche esponente della categoria un parere.
«Davvero – dice Elisa, “studentessa” dell’ultimo anno di asilo – ci sono ristoranti dove noi bambini non possiamo entrare? Non ci credo, io vado dappertutto con la mia mamma. E se un bimbo è troppo birichello come Marty che si sporca sempre il grembiule a mensa, la sua mamma lo sgrida». Semplice, ed efficace. Ancora più lapidaria Matilde, quarta elementare: «Io non ci vorrei andare in un ristorante così. Perché se uno che ha un ristorante non vuole farci entrare i bambini, o non è bravo a far da mangiare e non vuole che si sappia, o non ha capito che per fare il suo lavoro deve fare felici quelli che vogliono entrare». Certo, c’è anche chi scrolla le spalle: «Fa niente – risponde sereno Pietro, 6 anni appena compiuti – nella mia pizzeria preferita mi fanno entrare».