Sono passati quasi trent’anni dai tempi della Lady di ferro, così veniva chiamata Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990, e contro i minatori è ancora lotta dura.
Così iniziava, citando a memoria e in estrema sintesi, un articolo letto di recente sul quotidiano il Giornale in merito alle azioni messe in campo dal governo di Pechino per contrastare i cosiddetti miners, cioè coloro che si dedicano all’attività di estrazione delle criptovalute.
Le ragioni per cui la Cina sta chiedendo alle compagnie elettriche di non rifornire più le società che vivono dell’attività di mining, corrispondono alla scelta di eradicarle dal proprio territorio per scongiurare l’avverarsi delle stime pubblicate da Nature e quindi di vedere lievitare nei prossimi tre anni le emissioni di gas serra di 130 milioni di tonnellate. Azioni queste ultime, che si aggiungono alla ben più importante offensiva alla moneta digitale condotta attraverso le vie bancarie, finanziarie e commerciali già inibite alla fornitura di servizi e pagamenti in criptovaluta.
Ragioni diverse ma stesse azioni di contrasto anche in Iran dove l’estrazione di Bitcoin è stata vietata con effetto immediato e sino al 22 settembre dopo il verificarsi di numerosi blackout in molte città con un prevedibile corollario di danni trasversali che impattano sia sul semplice utilizzo civile, sia su quello produttivo, per arrivare persino a mettere in difficoltà le strutture mediche nella normale gestione delle unità di conservazione che necessitano di freddo.
Occorre considerare che oggi l’Iran rappresenta il 4,5% dell’attività estrattiva di bitcoin nel mondo. Non solo per gli oltre 50 centri di mining autorizzati dal governo e dislocati in 14 delle 31 province, che nel loro insieme consumano complessivamente 209 MW di elettricità, ma anche per un 85% circa di mining illegale che trova ragione di esistere nelle tariffe agevolate sull’elettricità.
Ma un simile clima di restrizioni e per molti versi di ostilità nei confronti di questa nuova ed evidentemente redditizia attività sta comportando che gli operatori del settore e le relative macchine consolidino importanti flussi migratori verso condizioni meno avverse e più favorevoli. Tant’è che già si parla di «grande migrazione del mining» verso nuovi lidi tra cui lo stato del Texas dove i costi dell’energia tra i più convenienti al mondo potrebbero in breve trasformarlo nella nuova fabbrica globale delle criptovalute.
Anche negli Stati Uniti tuttavia le posizioni assunte dai vari Stati non sono coincidenti, anzi talvolta sono diametralmente opposte: a fronte delle intenzioni dello stato di New York di legiferare per impedire la creazione di nuovi centri di estrazione di monete digitali che non siano ecologici ci sono quelle del Kentucky che vuole mettere a frutto la propria ricchezza di miniere di carbone concedendo detrazioni fiscali a coloro che investono almeno un milione di dollari per installare nuove macchine per il mining.
Un’altra opinione favorevole è quella del presidente di El Salvador Nayib Bukele che durante la recentissima Conferenza Bitcoin 2021 di Miami ha assicurato che a breve presenterà al Congresso un disegno di legge per rendere legale la criptomoneta facendo diventare di conseguenza il suo Paese il primo al mondo che la legalizzerà.
Nel suo messaggio il presidente Bukele ha spiegato che questo suo progetto è pensato per generare posti di lavoro e fornire inclusione finanziaria a migliaia di persone che vivono al di fuori dell’economia ufficiale. El Salvador è in effetti un paese in cui il 70% della popolazione lavora in nero e non ha un conto corrente. «Nel medio e lungo termine – ha affermato il presidente – speriamo che questa piccola decisione possa aiutarci a spingere l’umanità almeno un po’ nella giusta direzione».
Che si sia favorevoli o contrari, che si ritengano giuste queste o quelle azioni intraprese dai diversi stati, non possiamo che essere tutti concordi nel ritenere che il processo di digitalizzazione dell’economia sia un fenomeno incontrovertibile e capace di sortire un enorme impatto sociale i cui effetti si intravvedono soltanto. Forse l’unico effetto che già oggi inizia a mostrarsi con chiarezza è il suo peso sull’ambiente, ma i termini su cui si è avviato il dibattito a livello planetario potrebbero non essere sufficienti se essi rimangono isolati all’interno dei singoli stati.
Significherebbe pensare di dare soluzioni locali a problemi di peso necessariamente globale. E non basta. Se pensiamo ai termini della guerra geopolitica le cui conseguenze sono già in atto, il minimo che dobbiamo prefigurarci è un orizzonte di lungo periodo all’esterno del quale qualsiasi risposta o soluzione sarebbe un semplice e inutile espediente.