Al campo rom di Castel Romano, sulla via Pontina, l’energia elettrica va e viene. L’acqua invece non è mai arrivata. Per bere e lavarsi i residenti devono aspettare l’autobotte del Comune: tutti in fila con taniche e carrelli. Nell’insediamento di via Salviati, a Tor Sapienza, i bambini giocano in mezzo ai topi. A pochi chilometri di distanza, davanti all’accampamento di via dei Gordiani c’è sempre stata una discarica a cielo aperto. Qui i roghi tossici non si sono mai fermati, nonostante la presenza della polizia municipale. Una pattuglia fissa di giorno, due di notte. In passato il fumo acre ha persino costretto il vicino centro sportivo a sospendere la scuola calcio per bambini. L’aria era diventata irrespirabile.
«Roma è la capitale dei campi. Un terzo dei rom che in Italia si trovano in emergenza abitativa vivono qui». Carlo Stasolla è il presidente dell’Associazione 21 Luglio, realtà che da anni monitora il fenomeno. Con Linkiesta ripercorre gli ultimi cinque anni di gestione pentastellata. Nei campi della Città Eterna vivono seimila persone. La situazione è sempre più drammatica in quelli che sono diventati ghetti degradati e fuori controllo. Nonostante i milioni di euro spesi e le promesse di rito. «Virginia Raggi ha annunciato la rivoluzione senza cambiare nulla, ha mostrato la superbia tipica di chi non conosce le cose».
I ricordi tornano a pochi anni fa. Nel maggio del 2017 la sindaca aveva presentato il piano rom del Comune con un annuncio trionfale: «Finalmente a Roma saranno superati i campi». Tanto per non sbagliarsi, Beppe Grillo esultava sul suo blog: «Applausi per Virginia». La propaganda a Cinque Stelle aveva rilanciato: «È finito il magna magna». E invece era soltanto l’ennesimo fallimento della giunta a Cinque Stelle. Così l’entusiasmo iniziale si è trasformato presto in un silenzio imbarazzato.
A quattro anni dalle promesse, è stato chiuso un solo insediamento tra quelli previsti dal piano: il Camping River. A cui si aggiungono gli sgomberi di Schiavonetti e Foro Italico. Gli altri, compresi i maxi-accampamenti più problematici, sono sempre lì. «E le loro condizioni sono peggiorate, tutti i servizi sono stati azzerati dopo le vicende di Mafia Capitale, il risultato è che quei posti sono diventati invivibili», racconta Stasolla.
Lo smantellamento dei campi, secondo il piano Raggi, avrebbe dovuto realizzarsi grazie a bonus affitti e rimpatri volontari assistiti. Il documento del Comune prevedeva corsi di formazione e avviamento al lavoro. Persino mental coach e start-up. Un programma ambizioso, forse troppo. La sindaca, dal canto suo, era stata chiara: sarebbero stati usati solamente fondi europei. Peccato non sia andata così.
Negli anni della giunta a Cinque Stelle il Campidoglio ha speso 12,7 milioni di euro in bandi per il superamento dei campi, denuncia l’Associazione 21 Luglio. A questi si aggiungono 3 milioni per gli sgomberi e una cifra imprecisata per interventi di vigilanza della polizia municipale. Gli unici soldi comunitari utilizzati dalla Raggi sono quelli intercettati in precedenza dall’ex sindaco Ignazio Marino. Il resto delle risorse è stato preso dalle casse comunali, al contrario di quanto annunciato nel 2017.
Perché, con tutti questi soldi, i campi non sono stati ancora superati? Gli strumenti pensati finora non hanno funzionato. Al 31 dicembre 2020 solo otto famiglie hanno beneficiato del bonus affitti sponsorizzato dal Comune. «E molti hanno avuto problemi con i proprietari perché l’amministrazione non pagava il canone», spiega il presidente dell’Associazione 21 Luglio. L’ultimo bando del Campidoglio, varato lo scorso dicembre, si occupa di cercare altre sistemazioni. Il costo a carico del Comune è di 110mila euro l’anno per ogni nucleo familiare di sei persone. «A proposito di magna magna, queste non sono cifre irrilevanti».
Gli affitti non sono decollati, ma i rimpatri? Nell’estate del 2018 la Raggi volò a Craiova, in Romania, per pubblicizzare il rientro dei rom nel loro Paese d’origine grazie agli incentivi economici messi a disposizione dal Campidoglio. «Una terza via è possibile», dichiarava orgogliosa la sindaca. Ma anche qui, il bilancio non è dei più rosei: hanno aderito solo 12 famiglie che poi sono tornate a Roma perché «tra ritardi e burocrazie, il Comune non aveva dato il contributo economico promesso», ricorda Stasolla.
Una beffa che si aggiunge alla situazione romana. Oggi i dieci campi “regolari” rischiano di essere zone franche circondate da degrado e discariche a cielo aperto. La militarizzazione non ha risolto i problemi. «Le persone si sentono scarti e non fanno nulla per migliorare il luogo in cui vivono», spiega Stasolla. Eppure i campi sono meno affollati di un tempo, anche per via delle condizioni di vita disperate. Chi ha potuto, soprattutto tra le nuove generazioni, ha fatto domanda per un alloggio popolare: 548 negli ultimi tre anni. Altri si sono accampati con camper e baracche in giro per Roma. Sono cresciuti infatti gli insediamenti abusivi, quasi impossibili da monitorare. Tra il 2017 e il 2019 le persone che sono andate a vivere negli accampamenti “informali” sono aumentate del 66 per cento.
Intanto, tra censimenti e mappature, il piano della Raggi procede a rilento. La sindaca, prodiga di annunci sui social, spiega che «siamo in fase avanzata per il superamento dei campi di Monachina e Barbuta». E ricorda che «grazie all’installazione di impianti di videosorveglianza gli incendi sono diminuiti del 30 per cento». Dopo cinque anni e centinaia di roghi tossici, una magra consolazione per i ghetti a Cinque Stelle.