Seguire il modello asiatico su larga scala: è questa la vera innovazione dell’approccio cinese. Pechino infatti, secondo un articolo del Financial Times, ha orientato il sistema di rapida industrializzazione guidata dalle esportazioni – introdotto da Giappone, Corea del Sud e Taiwan – al mondo estero e ai Paesi in via di sviluppo.
«La Cina non si è liberalizzata politicamente perché è diventata più ricca», si legge sul quotidiano britannico. Ed è proprio questo a distinguere la Repubblica Popolare Cinese dai sudcoreani e dai taiwanesi.
Pechino nel frattempo si prepara a celebrare il centesimo anniversario della fondazione del Partito Comunista. «La Cina ha scoperto un percorso unico di sviluppo da cui il resto del mondo può ora imparare», ha commentato il presidente Xi Jinping durante un incontro. Mentre nel discorso al congresso del partito nel 2017, Xi ha affermato che la Cina «stava tracciando una nuova strada, per altri paesi in via di sviluppo, per raggiungere la modernizzazione».
Insomma, la Cina è un modello vincente di economia colonizzante. Costi quel che costi. Ma la nuova strada per la crescita economica non è tutta opera del Partito comunista cinese. «Le prime fasi delle riforme economiche della Cina post-Mao seguirono infatti una formula riconoscibile a chiunque avesse una conoscenza dei precedenti “miracoli” economici dell’Asia orientale». Le prime fabbriche nel sud della Cina sono state create da investitori d’oltremare provenienti da Taiwan, Hong Kong, Thailandia e altrove.
Un capitale e un modello di imprenditoria che pertanto è stata importato proprio perché vincente in quei paesi a basso reddito e a basso costo di manodopera. Per inteso: la Cina ha continuato a crescere a tassi a doppia cifra per decenni, è questo è di per sé sorprendete. Ma non è un’unicità.
Il Giappone ha gestito un’impresa simile per molti anni dopo la seconda guerra mondiale. La Corea del Sud era più povera di alcune zone dell’Africa subsahariana negli anni ’50, ma oggi è uno dei paesi più ricchi al mondo.
Cosa rende speciale allora la Cina? «Mentre l’economia del modello cinese è derivata, la politica è nuova. A differenza di Taiwan o della Corea del Sud, che si sono trasformate da stati a partito unico in democrazie man mano che si arricchivano, la Cina sotto Xi ha consolidato il dominio del partito comunista», spiega l’articolo.
Un solo e unico partito che decide il bello e il cattivo tempo, e che impone sopratutto un ordine sovrano. L’autoritarismo in stile cinese, a differenza della democrazia che si è diffusa negli altri Paesi asiatici, ha portato però a una rottura con il mondo occidentale. In particolare con la sfera euro-atlantica.
Le tigri asiatiche originali erano tutte alleate americane. Come dimostrato poi durate la guerra fredda con l’Unione Sovietica, nella quale gli Stati Uniti hanno potuto godere dei vantaggi di poter accedere con le esportazioni ai mercati dei loro alleati dell’Asia orientale. Washington era anche disposta a tollerare le loro politiche protezionistiche, e a cedere ampi margini di manovra all’emergente Giappone degli anni ’80, perché il contraccolpo era contenibile (in quanto la democrazia giapponese era un alleato strategico).
La Cina non è mai stata e (forse) non sarà mai un alleato degli Stati Uniti. E se «fino a poco tempo fa, almeno, Pechino era molto attento a evitare di sfidare apertamente il potere americano nell’area del Pacifico, le cose sono cambiate sotto Xi, poiché la Cina ha costruito basi militari nel Mar Cinese Meridionale e provocato un contraccolpo economico e geopolitico a Washington», continua il testo.
L’amministrazione Trump si è concentrata in gran parte sul deficit commerciale nazionale con la Cina. Con Joe Biden, invece, il gap è diventata uno scontro sui valori fondamentali. Il nuovo presidente afferma spesso che gli Stati Uniti e la Cina sono bloccati in una lotta ideologica e politica per fornire il modello di governance per il XXI secolo: democrazia o autoritarismo.
Da una parte c’è il più grande produttore ed esportatore al mondo, la Cina. Che adesso può vantare anche un’enorme economia domestica di consumo, che fornisce una fonte alternativa di crescita ai mercati di esportazione. Dall’altra c’è un Paese che può e deve rinascere sotto la guida di Joe Biden, partendo proprio dall’economia interna e dai rapporto trans-atlantici.
Senza contare poi l’intreccio aziendale che lega i due poli. «La Cina è anche appena diventata il principale destinatario mondiale di nuovi investimenti esteri. Le aziende cinesi si stanno espandendo in tutto il mondo. Le economie degli Stati Uniti e della Cina sono così profondamente intrecciate che un vero disaccoppiamento sarebbe estremamente difficile, per non dire impopolare per molte aziende di entrambe i Paesi».
La lunga ascesa della Cina è stata quindi un concerto di tanti voci, che adesso però rischiano di affievolirsi. Il nulla passare degli Stati Uniti di questi anni era infatti basato sul fatto che la Cina, come le altre tigri asiatiche, avrebbe attivato un processo democratico per interrompere il regime comunista man mano che si arricchiva. Gli Stati Uniti hanno adottato un atteggiamento incoraggiante e permissivo nei confronti dell’ascesa della Cina, che si è interrotto bruscamente (e forse un po’ in ritardo) quando la superpotenza asiatica ha continuato sul suo binario dell’autoritarismo.
Così l’America sta limitando l’accesso a determinate tecnologie avanzate alla Cina e sta riunendo i propri alleati in un fronte comune contro Pechino. «In questo nuovo ambiente geopolitico, Xi ha davvero bisogno di trovare un nuovo “modello cinese” – distinto dal modello dell’Asia orientale – se vuole far continuare l’ascesa della Cina», conclude l’articolo.