Viviamo in una replica, l’ho capito quando sul Guardian è comparso un articolo che ci spiegava i giovani, e quell’articolo l’aveva scritto Douglas Coupland. Sì, quello che trent’anni fa spiegava i giovani quando i giovani ero io.
Viviamo in una replica, l’ho capito quando su Apple+ è comparsa Physical, serie un po’ noiosa e un po’ cialtrona ambientata nel 1981, in cui Rose Byrne va a lezione di aerobica e fa gli esercizi su Gloria, nella versione di Laura Branigan, quella che sarebbe uscita nel 1982. Il suo personaggio sciala tutti i risparmi familiari in cheeseburger e nella tariffa della stanza di motel in cui si nasconde a mangiarli, nuda davanti allo specchio, come leggenda vuole faccia Gwyneth Paltrow nel secolo successivo (Gwyneth smentisce, tanto ormai agli sceneggiatori l’idea l’aveva regalata).
Viviamo in una replica, l’ho capito mentre l’altra sera mi intervistavano su un certo libro che ho scritto, e mi chiedevano di esporre la tesi secondo cui quest’epoca di vittimismo telegenico è cominciata proprio nel 1981, con Diana Spencer, e mentre rispondevo pensavo: ma se, in Anoressia e desiderio mimetico, Girard diceva delle cose della principessa Sissi tali e quali a quelle che si potrebbero dire di Diana, non sarà che tutti i difetti dell’umanità sono cominciati secoli fa e le nostre sono solo repliche anabolizzate dai social, dai media, dai palinsesti di 24 ore e dalle notifiche di cuoricini?
Dice qualcuno in Physical che l’unico modo di fare la differenza è fare un fracco di soldi, che è una frase che potrebbe dire qualsivoglia influencer quarant’anni dopo, solo che oggi nessuno la direbbe mai, perché gli anni Ottanta erano quelli di Gordon Gekko – il Michael Douglas di Wall Street, quello di «L’avidità è, non so dirlo meglio, una buona cosa» – e gli anni Venti sono quelli in cui, se non ti scandalizzi una volta al giorno perché il magazziniere di Amazon guadagna un miliardesimo di Jeff Bezos, non sei una persona per bene. Gli anni Ottanta erano quelli in cui dei soldi si poteva parlare, gli anni Venti sono quelli in cui ci pensiamo tantissimo ma ce ne vergogniamo.
Forse ci hanno rovinati le transazioni immateriali, ci pensavo mentre tutte le mattine quella di Physical cambiava un assegno da 50 dollari per poi, con quei soldi, farsi di cheeseburger nella stanza di motel, e quando il marito veniva licenziato pensava ci fossero dei risparmi e invece no: se li era mangiati tutti lei (nuda). Oggi mancherebbe tutta la parte fisica dei pagamenti, oggi la carta è contactless e neanche la strisciamo più, oggi col dramma del conto vuoto non ci faresti venti minuti di sceneggiatura, sarebbero due secondi: una notifica della banca che ti dice che hanno respinto l’addebito della carta.
Forse è tutto sempre e solo questione di soldi, anche lo scandalo di Madame che, santo cielo, si lamenta per le richieste di selfie. Una volta una popstar era ricca e famosa. La fama era una rottura di coglioni, ma la liquidità compensava. Adesso una popstar che non venda barrette dietetiche su Instagram rischia di guadagnare assai meno d’un impiegato del catasto, e di essere comunque merce da selfie nei ristoranti (ristoranti da poco, ché quelli costosi mica invitano una che né è Madonna né è influencer).
Forse è solo una replica, in questo caso di quella scena di Ricche e famose (che è anch’esso dell’81, compie quarant’anni in questi giorni) in cui Jacqueline Bisset diceva di sentirsi a disagio alla festa di Candice Bergen perché «qui sono tutti ricchi e famosi: io sono solo famosa». Jacqueline, ti presento Madame.
«Nella coda degli anni Ottanta e nell’inizio dei Novanta sembrava che la storia stesse finalmente emergendo da un periodo di clausura. L’Unione Sovietica era finita. Il capitalismo liberale trionfava. La musica cambiava completamente. Il nuovo cliché pubblicitario era che in ogni spot c’era qualcuno che prendeva a martellate il muro di Berlino; e c’era questo nuovo gruppo di gente giovane che evidentemente non aderiva a nessuna delle vecchie categorie, e quindi chi erano? Marshall McLuhan ha scritto che l’ipersemplificazione di qualunque cosa è entusiasmante, ed è quel che credo sia successo con la generazione X. Il termine diventò un meme quando di meme ce n’erano sì e no cinque o sei all’anno». Douglas Coupland la riassume così, ma io aggiungerei che, prima del suo libro, nessuno qui da noi aveva mai sentito parlare di «generazione».
L’americanata di dare nomi alle generazioni l’abbiamo importata per colpa sua, e non ce ne siamo più liberati.
Il risultato è che i giornali dicono «i millennial» e, siccome hanno iniziato a dirlo vent’anni fa, sono convinti voglia dire «i ventenni». Intanto i millennial hanno quarant’anni, il mutuo e la macchina familiare. Coupland è in grado di spiegarci anche questo: «È stato divertente, negli ultimi quindici anni, vedere vomitare addosso ai millennial la stessa identica bile che toccava alla generazione X: sono lagnosi, sono pigri, sono inutili». È colpa tua, Douglas: se non avessi scritto Generazione X, avremmo continuato a chiamarli «ventenni», i ventenni. Lo senti come suona meglio, e più eterno, «a vent’anni si è stupidi davvero», di qualunque osservazione si possa fare su un’etichetta sociologica generazionale di passaggio?
«Credo che gli insulti a una generazione siano un comportamento umano eterno, ma prima la collettività non viveva abbastanza a lungo da vederli replicati decenni dopo», spiega Coupland. Viviamo in una replica, ve l’avevo detto. Ma che nostalgia per quando i nonni morivano prima di doversi fingere coetanei dei nipoti, per quando i contanti doveva darteli il bancario, per quando i fan non avevano un telefono con cui farsi le foto con le popstar, per quando se una aveva successo potevi dare per scontato avesse miliardi. E, soprattutto, per quando non c’era un meme al minuto.