Giorno dopo giorno veniamo bombardati da titoli di giornali che ci mettono di fronte al triste futuro della Terra. Leggiamo notizie che descrivono in dettaglio disastrosi eventi meteorologici in giro per il mondo, e il feed dei nostri social media è pieno di slogan come «There’s no planet B».
Siamo ormai consapevoli di quello che sta succedendo intorno a noi e dell’impatto che sta avendo il climate change sulle nostre vite. Ma c’è un aspetto di questa crisi che in molti hanno trascurato e messo in secondo piano. È la nostra risposta emotiva al cambiamento climatico.
All’inizio, la cosa potrebbe sembrare un po’ fuori luogo. «Il mondo sta bruciando e vuoi parlare di sentimenti?», qualcuno potrebbe chiedersi. Ma le parole dell’attivista svedese Greta Thunberg, diventata famosa per i suoi scioperi Fridays For Future nel 2018, danno la giusta risposta: «Gli adulti continuano a dire di avere il compito di dare ai giovani la speranza. Ma non voglio la vostra speranza, voglio che andiate nel panico».
E, a quanto pare, qualcuno è davvero in preda al panico. Sopraffatte dall’entità del problema e consapevoli della possibilità di un drammatico futuro sempre più imminente, le persone hanno iniziato a sentirsi impotenti, tristi, pessimisti. Ma anche arrabbiati e frustrati. Ciò ha portato alla nascita del termine climate emotions, e in particolare, eco-anxiety.
L’espressione è stata coniata per la prima volta nel 2017 dall’American Psychological Association (Apa), che descrive la condizione come «una paura cronica del disastro ambientale».
Si tratta di un disturbo psicologico abbastanza recente che affligge un numero sempre maggiore di individui che si preoccupano per via della crisi ambientale. Secondo la spiegazione dell’Apa, l’eco-anxiety è una grande fonte di stress causata dal «guardare e vivere gli impatti irrevocabili del cambiamento climatico e preoccuparsi del futuro per se stessi, i propri figli e le generazioni successive».
In un’intervista per Linkiesta, Sarah Birch, Resilience Health Coach e Eco-Anxiety Facilitator per The Good Grief Network, ha spiegato: «C’è un ampio spettro di definizioni e nuances per quanto riguarda le climate emotions. Alcuni si sentono tristi e sono profondamente colpiti da sentimenti di perdita. Altri invece provano impotenza e frustrazione a causa dell’incapacità di sentirsi utili, di sentirsi come se stessero facendo la differenza nell’arrestare il cambiamento climatico. Poi c’è anche chi prova sentimenti come rabbia, paura e ansia. Tutte queste emozioni sono comunque valide e vanno bene perché sono una risposta appropriata a ciò che sta accadendo intorno a noi nel mondo».
Riguardo la portata e la diffusione del problema, Sarah Birch ha affermato: «Questa è una crisi climatica ed ecologica che se non affrontiamo efficacemente può avere – e anzi avrà – effetti su larga scala. Ed è un pensiero opprimente per moltissimi».
Negli ultimi anni, una serie di studi e ricerche hanno fornito terribili avvertimenti. Secondo le Nazioni Unite, gli effetti più disastrosi del cambiamento – come l’inondazione delle aree costiere causate dall’innalzamento del livello del mare, la siccità, la carenza di cibo e disastri naturali di ogni tipo – potrebbero essere la norma già nel 2040. Queste condizioni meteorologiche estreme sono per molti la principale delle cause di eco-anxiety e delle climate emotions.
Lauren Waddell, una ragazza australiana di 26 anni, trasferitasi a Londra per lavoro, ha raccontato di aver iniziato a soffrire di depressione e ansia climatica dopo aver vissuto in prima persona le conseguenze disastrose degli incendi scoppiati nel suo Paese nell’autunno 2019. «Non ho fatto altro che piangere per giorni e giorni – ha spiegato a Linkiesta – Sapevamo cosa stava succedendo, ma soprattutto eravamo consapevoli che quelle fiamme avrebbero bruciato per tanto tempo. All’inizio cercavamo di essere ottimisti e avere speranza, poi abbiamo capito che l’unica cosa che potevamo fare era pregare».
Non solo questi incendi hanno decimato oltre il 20% delle foreste del Paese, distruggendo oltre 1.400 case e uccidendo quasi un milione di animali; sono stati anche un duro colpo per la salute mentale dei cittadini come Lauren. Ne è una riprova il fatto che dopo gli incendi boschivi nel 2020, il governo australiano ha stanziato 76 milioni di dollari per fornire consulenza e supporto per la salute mentale di individui, famiglie e comunità colpite dagli incendi.
«Purtroppo, continueremo a vivere e vedere catastrofi climatiche di questa portata – racconta Lauren – ormai è come se ci fossimo abituati. Ma ancora in pochi capiscono che questi eventi sono distruttivi anche per il benessere mentale delle persone».
Secondo uno studio pubblicato dal National Center for Biotechnology Information, il Black Saturday bushfires, l’incendio scoppiato nello stato australiano di Victoria il 7 febbraio 2009, ha lasciato il 15,6% della comunità colpita con sintomi di disturbo da stress post-traumatico.
A soffrire di eco-anxiety possono essere dunque tutte quelle persone che hanno vissuto in prima persona un qualche tipo di evento traumatico causato dal climate change, e di conseguenza compreso quanto la questione sia allarmante e quanto ci riguardi da vicino. Persone che proprio per questo si sono ritrovate a lottare con le implicazioni emotive derivanti dal problema. Ma non solo. Secondo il rapporto dell’Apa del 2017, «i cambiamenti climatici graduali e a lungo termine possono far emergere una serie di emozioni diverse, tra cui paura, rabbia, sentimenti di impotenza o di burnout a ognuno di noi».
Secondo un sondaggio condotto dall’Università di Yale, negli Stati Uniti l’eco-anxiety è un fenomeno in aumento. Nel 2018, il 62% delle persone intervistate aveva dichiarato di essere almeno abbastanza preoccupato per il clima, rispetto al 49% del 2010.
Il tasso di coloro che si sono descritti come molto preoccupati era del 21%, circa il doppio rispetto a un altro studio del 2015.
Quasi cinque persone su dieci (47%) si sono detti disgustati o indifesi (45%) riguardo alla climate crisis, ma in molti (41%) hanno anche detto di essere fiduciosi per il futuro.
Più recentemente, nel gennaio 2020, uno studio condotto da YouGov e Friends of the Earth, ha riportato che il 70% dei giovani intervistati di 18-24 anni è più preoccupato per il cambiamento climatico rispetto a un anno fa, e oltre due terzi di loro hanno sofferto o stanno soffrendo di eco-anxiety.
La dottoressa Megan Kennedy-Woodard, psicologa accreditata dall’università di Oxford e co-fondatrice dell’associazione Climate Psychologists, ci ha spiegato che sta diventando più difficile per i pazienti ignorare le minacce del cambiamento climatico. «Per molto tempo siamo stati in grado di tenerci a distanza, ascoltare i dati e non essere influenzati emotivamente – ha detto a Linkiesta – Ma ormai non è più solo un’astrazione scientifica. Vedo sempre più persone disperate e persino in preda al panico».
E non è più neanche una questione generazionale: «I giovani hanno dato vita a questa rivoluzione, ma gli effetti del cambiamento climatico non colpiscono solo loro. Tra i nostri pazienti ci sono anche tantissimi genitori e nonni che vogliono proteggere il futuro dei loro figli e dei loro nipoti». Nessuno, quindi, è immune all’eco-anxiety.
Ma gli esperti ci tengono a sottolineare che l’eco-anxiety, e tutte le climate emotions più in generale, sono una risposta del tutto normale alla portata del problema che stiamo affrontando: «In realtà – spiega la psicologa Kennedy-Woodard – non vogliamo che le persone si sentano bene riguardo al cambiamento climatico. È una questione per cui un po’ di ansia può effettivamente aiutarci e motivarci a intraprendere ulteriori azioni. Ecco perché la maggior parte delle persone con cui parliamo, tra cui molti pazienti, non vuole che l’eco-anxiety venga riconosciuta come un disturbo mentale. Perché non lo è. È una risposta naturale a una vera e propria minaccia, molto reale, alla nostra vita».
La chiave è non seppellire quei sentimenti di ansia ma non lasciare neanche che prendano il sopravvento. In un interessantissimo TED Talk su come affrontare l’eco-anxiety, la ricercatrice Renee Lertzmann ha parlato dell’importanza della window of tolerance, cioè finestra di tolleranza. Questa idea, coniata per la prima volta dal dottor Dan Siegel nel 1999, si riferisce a quella linea sottile che separa l’essere totalmente insensibili al problema e l’esserne totalmente sopraffatti. Fondamentalmente, è giusto provare queste emozioni legate al clima, perché possono motivarci ad agire. Ma non dobbiamo essere così sopraffatti da quei sentimenti al punto da farci del male psicologicamente.
Megan Kennedy-Woodard spiega: «C’è sicuramente un momento in cui l’eco-anxiety può diventare dannosa per la nostra salute mentale. Succede quando ci sentiamo sopraffatti e non riusciamo più a essere noi stessi e fare le cose che facevamo prima».
Quindi, mentre è giusto rimanere informati sul cambiamento climatico e sul destino del nostro pianeta, è davvero importante ricordarsi di prendere dei provvedimenti per prendersi cura di se stessi e non lasciare che le climate emotions prendano il sopravvento.
Come fare dunque per far fronte all’eco-anxiety? Prima di tutto bisogna accettare la situazione e saper riconoscere queste emozioni. «È fondamentale aumentare la consapevolezza di ciò che sta succedendo al nostro pianeta, così come è importante agire – spiega Sarah Brich – Ma è bene ricordarsi che ognuno di noi è completamente diverso, e che non dovremmo fare pressioni sulle persone e stigmatizzare coloro che non seguono il nostro stesso percorso attivista».
E ancora: «Se iniziate a sentirvi isolati, depressi o esauriti, è davvero importante prendersi cura di sé. Questo significa ad esempio prendersi delle pause dai social media, riconnettersi con la natura, parlare con altre persone di come ci si sente, e, se necessario, anche cercare un aiuto professionale». Una volta stabilite alcune buone abitudini per mantenersi sani, è il momento di iniziare ad agire per combattere il cambiamento climatico.