L’Egitto si trova ad affrontare contemporaneamente una crisi sanitaria dovuta al Covid-19, una crisi economica nata ben prima del 2020 e sfide geopolitiche che potrebbero minare la stabilità interna del Paese, come quelle riguardanti i problemi di Libia ed Etiopia.
In questo contesto, però, il presidente Abdel Fattah al Sisi è riuscito comunque ha spostare – almeno in parte – l’attenzione dell’opinione pubblica sui grandi progetti infrastrutturali approvati durante il suo mandato.
Il fiore all’occhiello è la nuova capitale amministrativa che sorgerà 45 chilometri a est del Cairo: la nuova sede di uffici governativi e diplomatici nascerà da un investimento di 58 miliardi di dollari lanciato sei anni fa, su un pezzo di terra di circa 730 chilometri quadrati – cioè quattro volte Milano, più o meno le dimensioni di Singapore.
Già ad agosto i funzionari pubblici inizieranno il trasloco – termine decisamente riduttivo – dai ministeri nel centro del Cairo alla nuova capitale: l’obiettivo è avere i 55mila dipendenti operativi già entro la fine dell’anno, raggiunti da un totale di circa 6,5 milioni di persone che andrebbero a vivere nella nuova città alla fine delle operazioni.
Sisi ne ha parlato lo scorso marzo, durante un evento militare. Un contesto non casuale: in questo progetto, come in molti altri, sono state coinvolte diverse società di proprietà dell’esercito, e in tutta l’economia egiziana la presenza delle Forze Armate è in continuo aumento (lo stesso al Sisi è stato Comandante in capo delle Forze Armate dall’agosto 2012 al marzo 2014 e ha guidato il colpo di Stato militare del 3 luglio 2013 che ha rovesciato il presidente Mohamed Morsi).
Ne ha scritto Andrew England, che si occupa di Medio Oriente e Africa orientale, sul Financial Times: «Il progetto della nuova città incarna la visione di sviluppo di al Sisi: l’esercito è sfacciatamente in prima linea, e viene costruito su scala faraonica. Il presidente insiste sul fatto che la nuova capitale rappresenti la “dichiarazione di una nuova repubblica” anche se gli scettici lo considerano un progetto di vanità che un Paese con altre priorità non potrebbe permettersi».
Nel Paese più popoloso del mondo arabo, l’esercito è sempre più coinvolto nei progetti statali, il più delle volte attraverso società controllate direttamente.
L’edilizia e il settore immobiliare, oltre all’energia, sono i fattori chiave per il rilancio dell’economia dell’Egitto ancora in difficoltà: sono i settori che hanno permesso allo Stato di avere i più alti tassi di crescita del Pil del Medio Oriente, registrando oltre il 5% annuo nel 2018 e nel 2019.
Ma spesso l’apparenza inganna: «L’economia sembra sana dall’esterno, ma se si guarda in giro è tutta costruita sulle sabbie mobili», spiega un accademico egiziano al Financial Times.
La strategia di Sisi ha comunque un certo grado di sostegno, o quanto meno comprensione, in Egitto: alcuni egiziani dicono di capire perché il presidente si sia rivolto ai militari dopo aver preso il potere, visto che ha ereditato un’economia dilaniata dagli sconvolgimenti politici, dai conflitti civili e dagli attacchi terroristici che avevano ridotto al minimo gli investimenti nazionali e stranieri.
Ma otto anni dopo la presa del potere la prospettiva è diversa: la prepotente espansione economica dei militari potrebbe diventare irreversibile. Molti economisti dicono che l’attività produttiva non sta generando nuovi posti di lavoro sufficienti ad affrontare la disoccupazione giovanile dilagante e la povertà di una nazione da 100 milioni di persone e in crescita demografica.
Il tasso di occupazione è sceso dal 44,2% del 2010 al 35% nel secondo trimestre dello scorso anno, anche se si stima che 800mila laureati ogni anno entrino nel mercato del lavoro nazionale. E la demografia non sarà un alleato: il tasso di fertilità di 3,5 bambini per donna significa che la popolazione aumenterà di 20 milioni di persone nel prossimo decennio, e questo potrebbe aumentare la pressione sociale da parte dei giovani.
«C’è una crescita del 5%, ma il 2,5% proviene da minerali [petrolio e gas] che portano denaro ma non creano occupazione, che è l’unica cosa che salverà il paese. L’altro 2,5% è costituito da beni immobili [e costruzioni], che sono occupazione fittizia. Una volta che smetti di costruire, non ci sono posti di lavoro», scrive il Financial Times.
Una delle grandi preoccupazione è che l’espansione del ruolo dei militari nello Stato e nell’economia tolga ulteriore spazio al settore privato, spaventando gli investitori egiziani e stranieri.
La Banca Mondiale afferma che gli investimenti privati sono leggermente aumentati nel 2019, ma aggiunge che il loro peso nell’economia era ancora al di sotto delle medie storiche e considerevolmente inferiore rispetto a Paesi come la Giordania e le Filippine. E si registra un calo del 35% negli investimenti esteri netti rispetto al 2019.
Certo, l’Egitto si trascina problemi strutturali e radicati da tempo, che non sono necessariamente figli della gestione del presidente. Ad esempio la corruzione e la burocrazia scadente, o il mancato rinnovamento del comparto dei trasporti e delle infrastrutture commerciali.
Ma secondo il Financial Times anche tra i fedeli sostenitori di al Sisi ci sarebbero alcuni scettici che criticano l’idea di dover entrare costantemente in concorrenza con i militari, che controllano gran parte della terra, possono utilizzare il lavoro di leva, sono esenti da imposte sul reddito e sugli immobili e rispondono solo al presidente.
«Molti sospettano – si legge sul quotidiano britannico – che Sisi sia entrato alla presidenza diffidando del settore privato e disgustato dal clientelismo diffuso durante l’era Mubarak. È anche diffidente nei confronti degli uomini d’affari che diventano troppo potenti e politicamente influenti, considerandolo come uno degli ingredienti che hanno alimentato la rivolta del 2011».
Storicamente l’esercito ha sempre avuto una grande considerazione da parte degli uomini di potere, in Egitto: l’esercito è stato il fondamento dello Stato dal golpe di Abdel Nasser del 1952. I suoi interessi commerciali sono aumentati dopo che l’accordo di pace del 1979 con Israele ha ridefinito il ruolo dell’esercito. Ma, fino a Sisi, è rimasto in gran parte nell’ombra.
Secondo un rapporto della Banca Mondiale oggi ci sono 60 società affiliate a entità militari che operano in 19 dei 24 settori dei Global Industry Classification Standards. La National Service Projects Organization (Nspo) dell’esercito ne controlla 32, un terzo dei quali è stato istituito dopo il 2015.
L’esempio più visibile dell’influenza dei militari sul settore privato è stato nel cemento. Nel 2018 l’esercito ha aperto un nuovo impianto da 1,1 miliardi di dollari, che ha aggiunto 12 milioni di tonnellate di capacità produttiva annua al settore. Lo ha fatto anche se la domanda di cemento era in calo e il settore operava molto al di sotto della capacità.
I militari ora rappresentano il 24% della capacità produttiva e il loro intervento ha spinto diversi imprenditori al fallimento.
«Sotto al Sisi – conclude il Financial Times – l’Egitto, che era uno Stato di polizia, è diventato uno Stato militare: ora i tentacoli dell’esercito si estendono in tutti i settori dell’economia, dall’acciaio e cemento all’agricoltura, dalla pesca all’energia, dalla sanità al cibo. Nemmeno i media sono stati risparmiati, poiché entità legate alle agenzie di sicurezza dello stato hanno rilevato giornali, canali TV e case di produzione».