Il 60% dei vestiti in circolazione finisce in discarica entro un anno dal momento in cui viene realizzato. L’80% dei capi che ospitiamo nel nostro guardaroba non è stato indossato negli ultimi dodici mesi. Centonovanta mila abiti vengono prodotti ogni minuto: 3170 al secondo.
Per realizzare una singola semplice t-shirt possono servire 3900 litri d’acqua, cioè quanto ognuno di noi beve in cinque anni di vita e per ogni chilogrammo di tessuto prodotto, vengono immessi 17 kg di CO2.
Questi sono solo alcuni, preoccupanti, dati che riguardano l’industria dell’abbigliamento, uno dei settori più impattanti a livello globale, tanto dal punto di vista sociale che ambientale.
I suoi effetti si sono aggravati con l’esplosione della fast fashion, un modello di produzione e consumo di massa basato sull’offerta costante di nuovi capi a prezzi ridotti e sulla stimolazione dell’impulso all’acquisto. Dunque, l’induzione a riempire, tramite l’acquisto di capi di bassa qualità, un vuoto emotivo incolmabile.
Questo problema è stato raccontato nel documentario Storie di una moda possibile, prodotto dalle ong Mani Tese e Istituto Oikos nell’ambito del progetto “Cambia Moda!”, realizzato con il contributo dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Si tratta di un progetto che mira a far riflettere sulle conseguenze della fast fashion ma anche su un modo diverso di produrre capi d’abbigliamento, adottando modelli di business e pratiche virtuose dal punto di vista sociale e ambientale contro la bulimia d’acquisto della moda “usa e getta”, che spinge il consumatore a soddisfare un bisogno che in realtà non ha attraverso promozioni e campagne di marketing che inducono all’acquisto ripetuto di prodotti che non verranno mai utilizzati o che diventeranno, quasi immediatamente, un rifiuto.
Questo «crea delle dinamiche per cui si attiva una produzione di massa di bassa qualità perché i capi devono essere venduti, e sostituiti, velocemente», racconta Michele Donalisio di Produzione Lenta, una piccola impresa cunese che basa la propria produzione su una filosofia 100% slow fashion.
È un cortocircuito che ha importanti ricadute dal punto di vista sociale – si stima che quella dell’abbigliamento sia la seconda industria maggiormente esposta al rischio di forme di schiavitù moderna, soprattutto femminile – e ambientale. Infatti, come spiega Mani Tese, ong che da 50 anni si batte per la giustizia sociale, economica e ambientale in tutto il mondo, la filiera del tessile esercita una pressione enorme sulle risorse naturali, impiegando vaste quantità di acqua, risorse non rinnovabili e prodotti chimici dannosi, ed emettendo 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente ogni anno.
«Dietro la filiera produttiva non solo del fast fashion ma di ciascun capo d’abbigliamento, dobbiamo tenere conto della parte ambientale, quindi ad esempio delle fibre di cui sono fatti i nostri capi: alcune sono naturali, altre no. Le stesse fibre naturali, come il cotone, richiedono grandi quantità di acqua, trattandosi di una pianta idrovora», spiega Lucrezia Roncadi di Manigolde – sartoria sociale al femminile lanciata nel 2019 sulla base dell’esperienza ventennale di Mani Tese Finale Emilia nella gestione di mercatini dell’usato – nel corso del documentario.