Laurearsi convieneChi ha fatto l’università ha resistito di più alla crisi del mercato del lavoro

Nonostante certe narrazioni, avere più qualifiche è sempre un vantaggio in ambito professionale. Un titolo di studio più alto ha significato, durante la pandemia, il mantenimento del posto o, in caso, la rapida riassunzione

di Samuele Giglio, da Unsplash

Laurearsi conviene. È sempre convenuto in realtà, anche quando imperversava il mito del giovane che andando in fabbrica e imparando un mestiere manuale dopo il diploma riusciva a guadagnare più di quanto un laureato potrà mai fare in vita sua.

In generale si trattava già di ricostruzioni poco veritiere, al di là di un’aneddotica tra l’altro concentrata in alcune aree particolari, la provincia settentrionale, il Nord Est.

Ma forse mai come adesso appare particolarmente veritiero quanto un po’ in tutto il mondo, e soprattutto nei Paesi emergenti, è pacifico: per avere un posto di lavoro più remunerativo, ma soprattutto più stabile conviene acquisire più competenze.

Perché in questa crisi che ha significato una perdita di posti di lavoro superiore alla media europea (nonostante il blocco dei licenziamenti) a essersi salvati sono stati soprattutto coloro che avevano una laurea. Era già successo in realtà durante quella del 2011-2013, ma con il Covid si è avuta un’ulteriore conferma.

Dopo un primo calo del tasso d’occupazione tra il primo e il terzo trimestre del 2020, quando questo scese nel caso dei laureati dal 78,8% al 75,8%, in autunno e inverno vi è stato un recupero che lo ha riportato quasi agli stessi livelli precedenti alla crisi. La stessa cosa non è accaduta a coloro che avevano solo un diploma o una licenza media o ancora meno.

I primi tre mesi del 2021 per costoro sono stati quelli in cui il tasso d’occupazione ha toccato livelli minimi, non raggiunto da tempo. E questo nonostante la percentuale di lavoratori tra loro fosse già in partenza più bassa che tra chi ha studiato all’università.


Tasso d’occupazione, dati Istat

Solo il 40,7% di chi non è mai arrivato al diploma aveva un impiego a marzo 2021. Con un calo dell’1,7% rispetto allo stesso periodo del 2020, in cui del resto già si era verificato un peggioramento sul 2019. Ancora peggio è andata ai diplomati, con una discesa del 3,3%, che contrasta con quella solo del 0,6% che si è verificata tra i laureati.

Tasso d’occupazione, dati Istat

Vi è anche chi addirittura ha lavorato di più quest’anno di quello scorso. Sono le donne laureate, tra cui in realtà il tasso di occupazione è cresciuto del 0,5%. Si tratta in questo caso della compensazione del calo avvenuto l’anno scorso, che aveva colpito molto di più la lavoratrici che i lavoratori

Anche da altri dati è evidente come se all’inizio della crisi sia stata la forza lavoro femminile a essere colpita di più (del resto quella mediamente con contratti più precari, e in settori particolarmente impattatati come turismo, commercio, ristorazione) dalla seconda metà del 2020 una certa ripresa, accelerata nel 2021, abbia beneficiato di più le donne.

E però questo è molto più evidente tra le laureate che tra le diplomate per esempio. Tra queste ultime il tasso d’occupazione nei primi tre mesi di quest’anno rimaneva di ben il 3,6% più basso che a inizio 2020.

Tasso d’occupazione, dati Istat

Nella fase che stiamo vivendo di ripresa delle assunzioni, pur se quasi tutte ancora solo a tempo determinato, sono coloro che hanno un titolo di studio più alto quelli cui le imprese, ancora molto prudenti, si stanno affidando di più.

Questa disuguaglianza si aggiunge e si incrocia con un’altra ancora più profonda, quella che ha riguardato i diversi andamenti del mercato del lavoro dei differenti settori dell’economia. Che ha visto in un anno la perdita di ben 838 mila posti nell’ambito del commercio e dei servizi, moltissimi dei quali erano occupati del resto da diplomati più che da laureati.

Sono però svanite anche diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro nelle professioni tecniche, intellettuali e scientifiche, dove coloro che hanno terminato l’università sono molto presenti.

Ma è facile immaginare come in una stessa azienda di questi settori si sia fatta selezione, sacrificando chi aveva competenze meno specifiche.

Il divario è reso evidente anche da un altro indicatore, quel tasso di inattività che misura, quanti non lavorano e non cercano lavoro, che da sempre è ancora più eloquente di quello relativo alla percentuale di disoccupati, visto che questi ultimi sono in Italia strutturalmente pochi rispetto agli inattivi.

Questi oltre a essere di più sono cresciuti in modo deciso nell’ultimo anno, in particolare tra i diplomati, tra cui sono aumentati del 2,4% tra il primo trimestre del 2020 e il primo del 2021, diventando il 31,7% della forza lavoro.

Ma anche tra chi ha la terza media o meno, tra cui sono il 51,8%, l’1,2% in più di un anno fa.

Tra i laureati non solo sono solamente il 17,1%, ma soprattutto l’incremento rispetto a un anno fa è stato solo dello 0,1%, con un balzo nella primavera del 2020 rapidamente assorbito: coloro che all’inizio della pandemia avevano perso il posto e che nell’immediatezza a causa delle restrizioni non si erano messi a cercarne uno nuovo, risultando inattivi, si sono mobilitati dall’estate in poi.

Cosa non avvenuta, o avvenuta in misura minore, invece tra chi ha un tipo di istruzione meno avanzata.

Tasso di inattività, dati Istat

L’ennesima conferma che studiare conviene per avere un lavoro e per resistere meglio alle crisi appare in teoria una buona notizia soprattutto per un segmento particolarmente penalizzato negli ultimi 20 anni, quello dei giovani.

Le ultime generazioni del resto sono quelle più istruite della storia. E nonostante questo il tasso d’occupazione di coloro che hanno tra i 25 e i 34 anni, in un momento cruciale della carriera e della vita, è quello che è diminuito di più tra i primi mesi del 2020 e i primi del 2021, del 3,2%.

Dati Istat

Tra questi i laureati sono molti di più che tra i 50enni, che però se la sono cavata meglio. L’apartheid del mondo del lavoro, che separa i dipendenti garantiti, spesso più anziani anche se meno istruiti, dai più giovani, pur se laureati, è più forte che mai, ed è stato esacerbato dal blocco dei licenziamenti che come la cassa integrazione ha privilegiato la protezione dei primi.

Avere studiato è decisivo a parità di età, ma questi dati dimostrano che la strada verso un mondo del lavoro più giusto è ancora lunga, e richiede riforme da parte della politica. Tocca a questa agire, perché gli italiani più giovani il loro, ovvero studiare sempre più a lungo, lo fanno già.