La crisi demografica che tutta l’Europa, ma in particolare l’Italia, sta vivendo è stata inasprita dalla pandemia, che ha avuto l’effetto di far crollare le nascite. Ancora non si sa quanto questo calo sia transitorio. Sono in molti a temere che non si ritornerà ai livelli di fertilità precedenti la crisi, livelli del resto già particolarmente bassi, non sufficienti a evitare un calo della popolazione.
Il problema sembra essere stato finalmente riconosciuto come tale da tutti, anche dalla politica, anche da quella parte tradizionalmente restia a interventi pro-natalità. E solo l’immigrazione, di prima o di seconda generazione, ha frenato il calo demografico negli ultimi anni.
Ma anche i flussi migratori in sé non bastano più, e molto probabilmente non potranno bastare in futuro. L’immigrazione non è sufficiente, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Innanzitutto perché si è sostanzialmente bloccata. Gli arrivi sono diminuiti, i tanto pubblicizzati sbarchi in Sicilia sono solo briciole in confronto al flusso che normalmente giunge per altre vie, alimentato soprattutto da coloro che arrivano in Italia per ricongiungimenti familiari.
Negli ultimi anni i nuovi stranieri si erano stabilizzati quasi sempre al di sotto della soglia di 300 mila l’anno, contribuendo a fermare lo stock complessivo appena sopra i 5 milioni.
Qualcosa di simile era accaduto in Spagna, dove il numero complessivo di immigrati era addirittura calato con la crisi finanziaria, a causa della partenza di molti stranieri. Mentre in Germania il picco di alcuni anni fa collegato anche all’arrivo di profughi siriani, non è stato riassorbito, e il numero di immigrati, che era rimasto a lungo stabile, ha ripreso a salire, superando quota 10 milioni.
Dati OCSE
L’Italia ha avuto per alcuni anni il record di acquisizioni di cittadinanza da parte di stranieri, con un massimo nel 2016, quando furono più di 200 mila. Poi è iniziato il netto calo.
Dati OCSE
L’Italia nonostante quello che molti pensano non attira immigrazione, non come altri Paesi occidentali. E se non fosse per la particolare posizione geografica, di porta dell’Europa per chi proviene dall’Africa, i numeri sarebbero probabilmente ancora più bassi.
Perlomeno, quello che è certo, è che non attira un’immigrazione di qualità: stranieri che vogliono stabilirsi nel nostro Paese per mettere a frutto le proprie competenze meglio di quanto potrebbero fare nel proprio e fare fortuna, o perlomeno guadagnarsi da vivere.
Perché di competenze coloro che giungono nel nostro Paese ne hanno poche. Ben il 48,7% al momento dell’arrivo ha solo la licenza media o spesso neanche quella. È la percentuale più alta in Occidente. E inoltre solo il 13,7% di loro possiede una laurea.
Sono dati che impallidiscono di fronte a quelli di altri Paesi come Canada, Israele, Australia, Irlanda, dove ad avere una laurea è la maggioranza degli stranieri in arrivo.
Naturalmente influisce in qualche caso l’alto livello di regolamentazione e le norme rigide sull’immigrazione implementate, per esempio in Israele e Australia. Ma i laureati sono una quota superiore al 40% anche in Paesi in cui tradizionalmente si concede l’ingresso più facilmente, come in Svezia e in Danimarca. E persino negli Stati Uniti.
Dati OCSE, 2017
Non a caso in una situazione simile all’Italia è la Grecia. In entrambi i Paesi gli arrivi hanno un carattere anche casuale, dettato dalla geografia anche nel Paese ellenico, e a stabilirsi capita che siano stranieri che volevano giungere in Europa senza un obiettivo preciso e men che meno con una professione in mano.
E anzi, i più giovani, quelli tra i 25 e i 34 anni, al contrario di quanto accade altrove sono ancora meno istruiti di quelli più anziani. Solo il 12% di loro ha un titolo universitario. Contro il 24,7% di quelli della stessa età che arrivano in Spagna e il 39,7% di quelli che giungono in Francia.
Dati OCSE, 2017
È chiaro come su queste basi anche l’occupabilità sia necessariamente ridotta per queste persone. E non stupisce il fatto che il tasso di partecipazione al lavoro, che somma chi un’occupazione ce l’ha o la cerca, sia sempre stata più bassa della media degli altri Paesi (tranne la Francia).
Dati OCSE
Questi dati si riferiscono al periodo precedente alla pandemia. Sappiamo come nel 2020 gli immigrati abbiano sofferto un crollo del tasso d’occupazione molto maggiore di quello che ha interessato gli italiani.
E non poteva essere diversamente visti i settori in cui gli stranieri sono occupati in Italia: ovvero commercio, lavoro domestico, nella cura degli anziani. Tutti ambiti che si sono bloccati con la pandemia. Ma ad avere influito è anche il fatto che più spesso gli immigrati devono accettare contratti che li proteggono meno: a termine, in somministrazione, stagionali.
Non si tratta di discriminazioni, che naturalmente non mancano in generale, ma la condizione degli stranieri nel mondo del lavoro dipende in gran parte dalla loro mancanza di competenze. Che va naturalmente a incontrare un sistema economico ancora molto basato su produzioni e attività a basso valore aggiunto, lavori manuali poco remunerati.
Anche per questo in passato il tasso d’occupazione degli immigrati poco istruiti, era superiore a quello degli italiani con lo stesso titolo di studio: vi era richiesta di loro nelle imprese italiane che volevano risparmiare.
Ma a parte il fatto che si trattava di numeri comunque molto piccoli, questi stessi fattori fanno in modo che la loro situazione lavorativa sia anche più fragile, soprattutto durante le crisi.
Già prima della mannaia della pandemia in media solo il 61,4% di essi aveva in realtà un lavoro, meno degli stranieri negli altri Paesi dell’Occidente. In Germania lavorava il 70,8% degli immigrati, nel Regno Unito il 74,7%. Numeri che sono comunque peggiorati dopo la crisi, ma in Italia più che altrove.
Dati OCSE
Pensiamo veramente che stranieri sempre più disoccupati, o con salari bassissimi e occupazioni precarie possano essere prolifici e avere un gran numero di figli? Non è un caso se il loro tasso di fertilità si sta avvicinando a quello degli italiani, soprattutto se si tratta delle seconde generazioni. Il legame tra possibilità economiche e numero di figli sta diventando sempre più solido in Europa, con i cittadini con maggiori stipendi e più garanzie dal punto di vista del welfare che tendono ad avere più prole (e viceversa).
Dobbiamo essere capaci di attirare stranieri istruiti cui poter offrire un lavoro che possa essere ben remunerato e che consenta di mantenere una famiglia. O in alternativa dobbiamo essere in grado di formare e trasmettere competenze agli immigrati. Né il declino demografico né quello economico potranno essere impediti da migranti provenienti dall’Africa che sanno a malapena leggere e scrivere e con scarse competenze nel mondo del lavoro di oggi.