Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, ma soprattutto convinte di non aver visto facce per un anno e mezzo, e ho desiderato tanto averlo trascorso, quest’anno e mezzo, sul loro stesso pianeta, un pianeta sul quale le facce fossero effettivamente state coperte da mascherine.
Lunedì ho pensato fortissimo a Ricky Gervais, a quella sua battuta sul riconsiderare il suffragio universale solo dopo aver tolto per qualche tempo dai flaconi di candeggina l’avvertenza «non bere». Che speranza di miglioramento della società può mai venire da adulti bisognosi che si dica loro di non bere la candeggina?
Lunedì i giornali titolavano sulle mascherine non più necessarie all’aperto, e all’interno c’erano, immancabili, trafiletti che ci spiegavano che, negli interni in cui è ancora necessaria, la mascherina va tenuta a coprire anche il naso. Meno superflui, gli articoli, dell’etichetta sulla candeggina, giacché io in questo anno e mezzo ho visto più nasi che nel resto della mia vita.
Nasi fuori dalle mascherine in metrò, nasi fuori dalle mascherine in tribunale, nasi fuori dalle mascherine in treno, nasi fuori dalle mascherine nei negozi, nasi fuori dalle mascherine in tram, nasi di intervistati al tg allegramente fuori dalle mascherine, e nasi fuori dalle mascherine in ascensore – quello stesso ascensore dove io poi avrei dovuto respirare il tuo moccio.
Ieri, però, s’è deciso di rispettare la convenzione, come fosse una festività, di credere nel giorno in cui si compiva tutti assieme il rituale: è da oggi che siamo a faccia scoperta, mica da prima, mica da sempre.
Elena Stancanelli, su Repubblica, l’ha chiamato «il giorno dello smascheramento», e a me è tornato in mente quel personaggio d’un libro di Luciano De Crescenzo che non aveva soldi per festeggiare il capodanno. Quando, qualche settimana dopo, gli entrava un lavoro, decideva di rallegrare i figli tristi per il mancato festeggiamento sparando petardi come se capodanno fosse a metà gennaio, e i vicini lo denunciavano per disturbo della quiete pubblica.
Lui diceva alla polizia che allora li avrebbe controdenunciati – mica il diritto alla quiete pubblica ha una deroga il 31 dicembre – e tutti soprassedevano, ma era chiaro che sarebbe da lì in poi sempre stato il matto del quartiere: capodanno si festeggia quand’è ufficiale, e la fine delle mascherine pure.
Mentre Elena Stancanelli, che beata lei non ha passato un anno e mezzo a fissare con sguardo assassino narici esposte, vedeva «sorrisi, rossetti», e persino «i maschi con la barba recuperare il loro fascino», io mi chiedevo se per caso Roma fosse più civile: magari non avevano passato la pandemia con le mascherine calate, come Milano.
Poi mi sono ricordata di quando, in autunno, ho dovuto dire a un chirurgo romano di indossare quella benedetta mascherina nell’esercizio delle sue funzioni e smetterla di sputarmi in bocca, e quindi no, i romani son sempre romani (persino quando la portavano da prima, la mascherina, persino quando la porterebbero per mestiere), e gli scrittori son sempre fantasiosi.
Intanto, sul Corriere, Emanuele Trevi raccontava d’un evento del premio Strega, al quale è finalista, nel corso del quale un tizio gli aveva parlato per un bel po’ complimentando il suo libro, che però non era il suo: era quello dell’altro finalista Andrea Bajani.
Il tutto era accaduto perché Trevi è così poco romano da tenere la mascherina sul naso, ma abbastanza romano (o americano, o di dove vi pare: l’ho visto fare a tutti, persino al rigoroso Draghi, persino al disciplinato Biden) da salire sul palco e levarsela. C’è questa convinzione che, quando sali su un palco per parlare, ovvero per fare la cosa che più ti fa spargere saliva nell’aria, tu goda d’una speciale immunità che rende inutile la mascherina. Credo sia figlia della convinzione che le sottilissime mascherine impediscano al microfono – nel quale hanno sputazzato prima di te altri parlanti, e altri ancora sputazzeranno dopo – di recepire la tua voce, neanche tu fossi Diana Spencer sussurrante.
Insomma Trevi sale sul palco e si toglie la mascherina e svela il proprio naso e, soprattutto, il proprio libro, che non è quello complimentato dal tapino. Con cui deve quindi scusarsi per essersi educatamente finto Bajani, grazie alla mascherina. Una vita a pensare che Paperinik non fosse credibile – com’è possibile che con una mascherina sugli occhi nessuno capisca che è Paperino, santa pace – e poi basta coprirsi il naso per essere inidentificabili.
Forse hanno ragione loro – sapranno quel che dicono, io mica sono una migliore mente della mia generazione – e forse tutte quelle mascherine calate erano una mia percezione paranoica, eccezioni che mi parevano regole. Forse fino all’altroieri eravamo tutti rigorosamente mascherati, tutti a farci sudare la faccia (la settimana scorsa sui social girava un video di Salvini che con la mascherina s’asciugava il sudore, e io ho pensato che nessuno è più entelechia d’italiano di lui).
Ma allora perché i giornali dopo un anno e mezzo ancora ci ricordano che va tenuta sul naso? Perché ce lo ricorda la voce in diffusione nelle stazioni della metropolitana? Perché sui treni l’altoparlante ci ribadisce che il naso va tenuto nella mascherina a ogni stazione, roba da far impazzire gente ben più paziente di me?
E, soprattutto, la signora col naso di fuori dall’altra parte del corridoio, su questo treno che percorre l’Italia, lei avrà mai provato un cocktail di liquore Strega e candeggina?