Più i governi di tutto il mondo scelgono la strada dell’energia pulita, più il peso politico delle grandi industrie petrolifere diminuisce. Tuttavia, a detta di diversi analisti, la transizione dalle fonti fossili non passerà inosservata. Al contrario, attiverà nuove relazioni, e tensioni, geopolitiche.
L’impegno internazionale e statale che molti Paesi stanno dimostrando, perlomeno sulla carta, per diventare più ecologici ha inevitabilmente modificato i rapporti con il settore del Big Oil.
Come ha spiegato al Financial Times Greg Priddy, ex analista energetico per il governo degli Stati Uniti: «C’è sempre stata l’idea che il potere geopolitico fosse legato all’accesso al petrolio. Anche dopo l’amministrazione Obama, negli Stati Uniti c’era la sensazione che i grandi produttori esteri fossero strategicamente importanti. Ma tutto questo sta cambiando».
Anche se già da tempo le compagnie petrolifere hanno iniziato a ridurre gli investimenti nell’esplorazione rischiosa di frontiera, temendo che il consumo di petrolio possa raggiungere il picco nel prossimo decennio, una spinta propulsiva importante in chiave green, quindi disincentivante per i combustibili fossili, è arrivata lo scorso aprile con il vertice sul clima, convocato dall’attuale presidente americano Joe Biden per fare pressione sugli Stati e ridurre le emissioni climalteranti.
Il mese successivo è poi stata pubblicata la roadmap energetica dell’Agenzia internazionale dell’energia, un documento nel quale viene sostenuto che per portare a zero, entro il 2050, le emissioni di gas serra – unica possibilità che abbiamo per centrare l’obiettivo dell’accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°) -, l’esplorazione di nuovi giacimenti petroliferi avrebbe dovuto essere bloccata da subito.
Come si legge sul Financial Times, anche nei Paesi in cui un tempo i dirigenti petroliferi, nella gestione delle relazioni con i leader stranieri, avevano un ruolo tanto importante quanto quello degli ambasciatori – e a volte rivestivano anche incarichi politici – l’influenza delle majors sta diminuendo.
Le cose sono cambiate e i governi non intendono più essere considerati all’estero sostenitori di società di combustibili fossili: al contrario, investono in un’agenda nazionale basata sulle energie rinnovabili.
Questo si è verificato anche nel Paese che è il più grande produttore e consumatore mondiale di petrolio, gli Stati Uniti: l’amministrazione Biden ha demolito l’oleodotto Keystone XL e proposto investimenti senza precedenti in energia pulita. Di più, la Casa Bianca ha fatto pressioni su altri Paesi affinché smettano di finanziare progetti esteri inerenti al carbone.
Nonostante le majors petrolifere abbiano goduto in passato del sostegno dei governi, oggi affermano che da un lato non hanno mai fatto affidamento su di loro per assicurarsi l’accesso alle risorse e dall’altro che rimangono tuttora le benvenute in molti Paesi.
Parallelamente, secondo gli analisti, i politici rischiano di perdere peso globale indebolendo i loro legami con le compagnie petrolifere e del gas e liberando i Paesi in via di sviluppo dalla dipendenza dai combustibili fossili.
Gli Stati Uniti, ad esempio, dovrebbero utilizzare le proprie risorse di idrocarburi per supportare potenziali alleati che altrimenti potrebbero fare affidamento sulle forniture di Paesi come la Russia. «Oggi c’è una forte competizione geopolitica con la Cina per l’influenza economica su molte parti del mondo», ha confettato al Ft un ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti che ora lavora per una grande compagnia petrolifera statunitense e che ha chiesto di rimanere anonimo. «Gli Stati Uniti hanno vantaggi con le loro forniture di GNL, ma sembrano meno desiderosi di usarli».
«La road map dell’Aie è stata piuttosto sorprendente nell’evidenziare ciò che deve cambiare, ma anche sorprendente nel dire che nulla sta ancora cambiando: la domanda di petrolio è ancora in aumento», ha sottolineato Jason Bordoff, ex assistente speciale di Barack Obama e direttore del Center on Global Energy Policy presso la Columbia University ha affermato Bordoff.
Secondo Bordoff, il ruolo delle risorse naturali nella politica estera si evolverà con la transizione energetica. La corsa ai minerali critici per le batterie o l’accesso a combustibili alternativi come l’idrogeno implica che le relazioni tra i grandi produttori di materie prime e i governi non svaniranno bensì cambieranno forma. «Anche se tutti i problemi della geopolitica energetica fossero risolti con la decarbonizzazione, la transizione energetica ne creerà senza dubbio di nuovi», ha affermato.