Dove c’è un Parlamento, ci sono proposte per riformarlo. È un assioma della democrazia. Nel Regno Unito, la storia delle assemblee è secolare: il bicameralismo risale al 1341, quando la futura Camera dei Comuni si riunì separatamente da nobiltà e alte sfere ecclesiastiche. Dal 1544 la seconda Camera sarà chiamata Camera dei Lord. Nel corso del tempo, il potere passa all’aula dei Comuni elettiva, i cui «ayes to the right» e «noes to the left» decretano le mosse dell’impero britannico (si vota ancora così, sfilando verso i banchi del governo o dell’opposizione), e già nel 1886 si comincia a discutere di come svecchiare la carica, ereditaria, di Lord. Il dibattito oggi si divide tra abolire, modificare, o spostare da Londra questa antica istituzione.
Partiamo dal presente. Oggi i “Pari del Regno Unito” sono 788 (567 uomini e 221 donne). Età media: 70 anni. Fino al 1958, le donne non erano ammesse, la prima a essere nominata, con il titolo di baronessa, è stata nel 1959 la sociologa Barbara Wootton; mentre la riforma ha permesso a Irene Curzon, baronessa di Ravensdale, di sedervi in virtù dell’eredità paterna. Negli ultimi anni, la rappresentazione femminile è cresciuta: siamo al 28 per cento contro il 21 per cento del 2010, un dato comunque inferiore rispetto alla House of Commons.
La componente politica non è secondaria. Esistono ancora 25 Lord di estrazione “spirituale”, il gruppo che secoli fa era preponderante. Si tratta di vescovi: cinque di loro sono donne, la prima è stata Rachel Treweek nel 2015, vescovo di Gloucester (la chiesa anglicana, a differenza di quella cattolica, prevede l’episcopato per le donne). Ma la maggior parte dei seggi è classificata come “temporale”. Hanno scelto questa categoria anche alcune autorità religiose, come il gran rabbino Immanuel Jakobovits.
Con la riforma laburista del 1999, il diritto «per nascita» è stato eliminato definitivamente. All’epoca sono state riconosciute 92 eccezioni temporanee, oggi sono rimasti 84 membri ereditari. I più numerosi sono i «Lord a vita» (679), per i quali non esiste un limite massimo. La loro investitura arriva dalla Regina, su consiglio del primo ministro o di un’apposita commissione della Camera alta. Per tradizione, il premier accoglie anche le indicazioni delle altre forze politiche, mentre la commissione si concentra su figure indipendenti. I «crossbenchers», come vengono chiamati i non affiliati, sono fondamentali per l’equilibrio e sono secondi, a palazzo, solo ai conservatori (187 contro 259, i laburisti sono 173).
In teoria, la Camera dei Lord ha il potere di emendare o bocciare le leggi che le vengono trasmesse dai Comuni, ma nella pratica l’efficacia di questa interdizione è sempre più virtuale. Per esempio, non può ritardare di oltre un mese un disegno di legge economico, cioè sui finanziamenti pubblici o la tassazione. Può venire scavalcata con il Royal Assent, un’eventualità ormai rara, ma in ogni caso non può stroncare un provvedimento per più di due volte, né congelarlo per più di un anno. Infine, non può pronunciarsi su quanto il governo in carica aveva promesso nel programma elettorale.
La principale linea di riforma del presente riguarda rendere elettiva la carica di “pari”, in toto o per una percentuale dei membri. Proponeva una formula ibrida, 50 e 50, il White Paper del governo di Gordon Brown nel 2007. Ma i due rami del Parlamento litigano: i Comuni sposano l’idea di un’elettività al 100 per cento, come ritorsione i Lord votano per la nomina totale dei componenti. Ci riprova (invano) la coalizione tra Tories e liberaldemocratici dell’esecutivo di David Cameron. L’ipotesi è un’elezione con sistema proporzionale oppure una specie di “lottizzazione” delle investiture che rifletta il risultato alle urne dei partiti. Il testo finale del 2012, a firma del lib-dem Nick Clegg, indica il voto per scegliere l’80 per cento dei componenti e la decadenza per chi diserta i lavori. L’opposizione interna dei conservatori affosserà la riforma.
Alcune novità amministrative, tra il 2014 e il 2015, hanno normato le possibilità, in precedenza non previste, di dimettersi dalla carica e, soprattutto, la sospensione e l’espulsione dei Lord condannati a sentenze di più di un anno di carcere. Nel 2017, una commissione parlamentare promossa dall’ex speaker (l’equivalente del presidente) Lord Fowler ha raccomandato un taglio a 600 membri, una durata di 15 anni dell’incarico e una quota di indipendenti del 20 per cento per evitare maggioranze partitiche. Con la saga di Brexit a monopolizzare l’agenda politica di Theresa May, l’indicazione è rimasta lettera morta.
Ma cosa pensano i cittadini britannici della Camera dei Lord? La fibrillazione di proposte e controproposte si spiega leggendo le rilevazioni demoscopiche. Il centro studi della House of Lords Library, nel 2012, ha riassunto la serie storica in un documento: gli intervistati ritengono sia importante avere una seconda assemblea forte per bilanciare il potere del governo, ma è giusto che l’ostruzionismo – anche se sono stati esercitati appena quattro veti in sessant’anni – non possa congelare l’attività dei Comuni. Sono condivise anche l’idea di un mandato più corto, sotto i dieci anni, e la possibilità di candidarsi per la rielezione.
In generale, l’elettorato vorrebbe incidere di più nel processo di selezione dei “pari”. Nel corso degli anni, è rimasto stabile (attorno al 20 per cento, arrotondando per eccesso) il consenso per l’abolizione tout court dell’istituzione. Una posizione minoritaria rispetto alla somma di chi è favorevole allo status quo (15 per cento) e di chi vorrebbe una riforma (22 per cento, dati al 2020 di un sondaggio YouGov). In un ipotetico referendum, c’è una variabile da considerare: circa un terzo del pubblico è indeciso.
Sul sito ufficiale la House of Lords si definisce «un forum per la competenza indipendente»: una presentazione da società di consulenza più che da seconda Camera di una potenza del G7. Le nuove nomine – una delle più recenti, sponsorizzata da Boris Johnson, ha sollevato accuse di compravendita perché il beneficiario ha donato mezzo milione ai conservatori – hanno portato il numero di membri al massimo storico, assieme alle spese: 23 milioni di sterline all’anno.
Un ultimo aspetto, cui è legata la sopravvivenza dell’assemblea, è la sede. Nella strategia nordista per rilanciare le aree periferiche del Paese, Johnson aveva caldeggiato il trasloco dei Lord a York, antica capitale romana e vichinga. I diretti interessati hanno risposto «No, grazie». Il dossier, però, è stato solo rinviato e si ripresenterà: nel 2018 l’aula ha dato il placet a un trasferimento durante i lavori da 5,6 miliardi di sterline per ristrutturare Westminster.
Quali sono le possibili sedi provvisorie? La BBC ne elencava tre londinesi (il Queen Elizabeth II conference centre, l’Olympic Park media centre, Buckingham Palace) oppure Birmingham o Manchester. Non solo. La Camera dovrebbe andare in “tour” per il Regno Unito, ha rilanciato a maggio lo speaker John McFall. Come scrive Politico.eu, servirebbe a migliorare l’immagine pubblica, ma è un’ipotesi poco concreta.
Per ora una data è certa: il cantiere a Westminster non aprirà prima del tardo 2025. Chissà se, per allora, la Camera dei Lord riuscirà a reinventarsi, se il dibattito sarà entrato nella fase successiva o se questa istituzione plurisecolare avrà mantenuto intatti lignaggio e cerimoniale.