Gli effetti della Brexit in Irlanda del Nord al momento si spiegano con due numeri. Secondo il Central Statistics Office (CSO) irlandese a febbraio di quest’anno l’export di Belfast verso la Repubblica d’Irlanda è quasi raddoppiato rispetto al 2020 (da 145 a 283 milioni di euro) mentre l’import è passato da 168 a 232 milioni di euro. Nello stesso intervallo di tempo, i beni e servizi acquistati in Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito sono diminuiti di un terzo: da 1,4 miliardi di euro a 650 milioni (467 milioni a gennaio).
Il Northern Ireland Protocol negoziato dal Regno Unito e dall’Unione europea per regolare i rapporti commerciali post-Brexit prevede che i beni e i servizi possano circolare liberamente attraverso il confine irlandese di terra, mentre a quelli che dall’Irlanda del Nord vengono trasportati nel resto del Regno Unito si applicano i controlli per le merci che lasciano il mercato comune europeo di cui Belfast continua di fatto a far parte. Lo stesso dovrebbe succedere a breve ai beni e servizi che dalla Gran Bretagna sbarcano in Irlanda del Nord, anche se Londra sta cercando di ottenere da Bruxelles una proroga dell’entrata in vigore di queste nuove norme,
Non sorprende che il mondo del business nordirlandese cominci a ritenere l’Irlanda (e quindi l’Unione europea) un partner commerciale più conveniente rispetto alla Gran Bretagna. Secondo i dati riportati dalla Northern Ireland Statistics Research Agency (Nisra) l’export da Belfast a Londra era già in calo negli ultimi anni. Dopo aver raggiunto l’apice di circa 14,2 miliardi di sterline nel 2016, è sceso a 10,6 nel 2018. Nel frattempo crescevano gli scambi commerciali con la Repubblica d’Irlanda, con l’export aumentato dell’8,6% (da 3,8 a 4,2 miliardi) e l’import del 6,2% (2,8 miliardi) tra il 2017 e il 2018.
L’entrata in vigore degli accordi post-Brexit e del Northern Ireland protocol hanno accelerato un’integrazione delle economie di Irlanda e Irlanda del Nord in corso già da qualche anno, parzialmente a scapito dell’integrazione economica di Belfast con Londra. Del resto, almeno prima della pandemia di coronavirus, il confine di terra irlandese veniva attraversato quotidianamente da circa 30.000 pendolari e l’Irlanda costituiva già di gran lunga il partner commerciale più importante dell’Irlanda del Nord (le altre nazioni del Regno Unito, ovvero Scozia, Galles e Inghilterra non vengono considerati partner commerciali in quanto parte dello stesso Stato).
Nel 2019 le principali esportazioni dall’Irlanda del Nord all’Irlanda sono state cibo e animali vivi per 983 milioni di sterline, macchinari ed equipaggiamenti per i trasporti per 526 milioni e manufatti di metallo, minerali non metallici e carta per 514 milioni. Dall’Irlanda, Belfast ha invece importato cibo e animali per 874 milioni di sterline, prodotti chimici per 408 milioni e manufatti per 306 milioni.
Per il Regno Unito l’Irlanda del Nord è soprattutto un Paese che acquista più che vendere, almeno fino al tracollo dei traffici nel Mare d’Irlanda dei primi mesi di quest’anno. Nel 2018, l’economia nordirlandese ha contribuito a quella del Regno Unito soprattutto con prodotti alimentari, bevande e tabacco (576 milioni di sterline), equipaggiamenti per i trasporti (369 milioni) e gas ed elettricità (303 milioni). Le realtà produttive nordirlandesi (per la maggior parte di dimensioni medio-piccole) maggiormente dipendenti dal mercato britannico nel 2017 sono state le agenzie di viaggio e altre attività legate al turismo, il settore radiotelevisivo e quello dei combustibili fossili.
L’Irlanda del Nord è una piccola parte dell’economia del Regno Unito: un mercato di appena 1,9 milioni di persone su una popolazione complessiva di più di 65 milioni. Piccola e anche inefficiente, almeno su un piano strettamente economico: Londra paga ogni anno più di 10 miliardi di sterline di sussidi a Belfast, più degli 8,6 miliardi che fino all’anno scorso pagava per contribuire al bilancio dell’Unione europea. I sussidi rappresentano circa un terzo del bilancio complessivo dell’Irlanda del Nord. Nel 2018 il “Future of England Survey” dell’agenzia Yougov registrava che per il 62% dei cittadini inglesi le tasse raccolta in Inghilterra dovessero essere spese in Inghilterra, e non in Irlanda del Nord (la cifra saliva al 7% tra gli elettori conservatori).
L’economia come leva per unire l’isola
Gli accordi post-Brexit sono entrati in vigore solo dall’inizio di quest’anno, quindi è ancora presto per dire se quanto successo negli scorsi mesi sia una tendenza destinata a consolidarsi o crescere nei prossimi anni Ma a Dublino c’è già chi punta sull’integrazione economica come una leva dolce per una futura riunificazione dell’isola. Jim O’Callaghan, per esempio, politico di punta del partito di centrosinistra Fianna Fáil (che governa in coalizione con il Fine Gael, di centrodestra) ha pubblicato sul proprio sito web un piano per “un nuovo Paese” che dovrebbe nascere dall’unione di Irlanda e Irlanda del Nord sotto una sola Repubblica.
Sul fronte economico, il suo argomento principale è che un’Irlanda unita contribuirebbe ad aumentare il benessere di tutti gli abitanti dell’isola. Un’idea che è stata a lungo respinta dagli unionisti, anche perché l’Irlanda del Nord integrata nel Regno Unito è stata storicamente più ricca della Repubblica irlandese. Oggi però le cose sono cambiate. Il Pil pro-capite irlandese è più alto del 45% di quello dell’Irlanda del Nord, gli stipendi sono più alti del 35%. L’aggiunta di 1,9 milioni di nordirlandesi alle 4,8 milioni che vivono nel resto dell’isola – scrive O’Callaghan – creerebbe un mercato molto più ampio per la produzione e il consumo di beni e servizi”.
Con il suo piano O’Callaghan vuole dimostrare che l’Irlanda del Nord (un Paese dove il maggiore datore di lavoro è il servizio civile britannico) avrebbe solo da guadagnare dall’integrazione con un’economia dinamica come quella della Repubblica d’Irlanda, ormai da anni tra i Paesi con i tassi di crescita più alti d’Europa grazie a quella che O’Callaghan definisce “un uso astuto del sistema delle tasse sulle grandi corporation” (ma c’è chi accusa l’Irlanda di essere diventata una sorta di paradiso fiscale) e lungimiranti investimenti infrastrutturali. Anche a costo di perdere i preziosi sussidi che Belfast riceve dal Regno Unito.
Il governo di cui fa parte il Fianna Fáil di O’Callaghan ha come obiettivo a lungo termine l’unificazione ma, come spiegato in un recente un articolo di Politico, la sua strategia è più prudente rispetto a quella dello Sinn Féin, il partito storicamente collegato alla causa nazionalista e repubblicana e che oggi chiede un referendum sull’unificazione. Lo Sinn Féin (che esiste sia in Irlanda che in Irlanda del Nord) ha avuto un exploit elettorale alle elezioni di Dublino dell’anno scorso, che ha costretto il Fianna Fáil e il Fine Gael ad allearsi per tenerlo fuori dal governo, ed è indicato dai sondaggi come probabile vincitore delle elezioni previste per l’anno prossimo in Irlanda del Nord.
I partiti più moderati temono però che un referendum, oltre a non avere un esito scontato, possa aumentare ulteriormente la tensione in una società – quella nordirlandese – già profondamente divisa, come hanno dimostrato gli scontri tra unionisti e nazionalisti delle ultime settimane a Belfast e in altre città nordirlandesi, che ad oggi contano circa 90 agenti di polizia feriti e che alcuni media locali paragonano per ferocia ai troubles che tra gli anni 60 e 90 del secolo scorso provocarono più di 3.500 morti ( ).
Per questo preferiscono usare la leva dolce dell’integrazione economica. Il riorientamento dei commerci nordirlandesi verso la Repubblica d’Irlanda spinge in quella direzione, e nel lungo termine potrebbe pesare sulla causa dell’unità irlandese almeno quanto la più appariscente guerriglia urbana tra unionisti e repubblicani.