Preghiera latinjazzL’album “Primal Roots” di Sergio Mendes è un viaggio colorato e frizzante nel cuore del Brasile

Con questo disco il pianista brasiliano decide di ritornare a casa al 100%, compiendo un viaggio che tocca punti diversi della musica brasiliana, grandi autori e musica popolare. Il tutto suonato con la maestria di musicisti stellari e strumenti acustici. Read&Listen

Non ricordo quando né come mi sia arrivato fra le mani “Primal Roots”, in quegli anni in cui “world music” era parola ancora da inventare ed era tutto prog e California. So che me ne sono innamorato istantaneamente, come colpito da un incantesimo (non a caso, come con i dischi che contano, fra vinile e cd ne ho ben quattro copie…).

Sicuramente all’inizio mi ha sedotto la copertina, sabor tropical, di bellezza assoluta. L’artista, chissà. Perché di certo Sergio Mendes, eccellente pianista jazz e possessore di una formula di successo unica ai tempi – una versione latinjazzata e vocalmente incantevole di brani brasiliani e in inglese, una sorta di ante-ante-litteram al lounge dei tardi anni 90 – non era certo sui radar dei fan del rock. 

Ma questi 35’ di musica intinta nelle tradizioni, nella spiritualità e nelle melodie brasileire sono qualcos’altro. Qui non c’è quella formula 50/50 fra bossa e popjazz, questo è un ritorno a casa al 100%. Il trentenne Mendes, ormai residente losangelino, sceglie di tornare in Brasile e di andare in cerca di “radici primordiali”, e il tutto ha un sapore diverso. O, come il fiore in copertina, un profumo particolarmente intenso: colorato, come il sorgere del sole su una spiaggia, ma anche notturno, percussioni battenti per rivolgere una preghiera a Pomba Gira, dea dei sensi, o una chitarra e voce soffusa per invocare Iemanja, dea dell’acqua.

È un album di cui, più che ricordare il singolo tassello, ti ricordi dell’insieme. Del suono, dell’atmosfera, del mood che crea. È un album che, come in un viaggio, tocca punti diversi della musica brasiliana, grandi autori e musica popolare. Il tutto suonato, però, con la maestria di musicisti stellari, e tutti strumenti acustici. Lui al piano, ma soprattutto alla guida: uno dei pregi di Mendes è sempre stata la misura, il concepire la musica come qualcosa di insieme, di gruppo, e da bravo leader sa quando essere presente e quando lasciare agli altri.

A pensarci bene, non c’è quasi per niente pianoforte. Questo è, in essenza, un album per voci, varie percussioni brasiliane e chitarre. Una diversione totale dal suo stile, e per questo un Lp relativamente poco conosciuto, sicuramente non un suo best seller. Pubblicato in madrepatria col nome “Raìzes”, e come “Primal Roots” negli Stati Uniti dalla A&M di Herb Alpert, etichetta che nella sua ascesa ha avuto un ruolo fondamentale. 

Alpert, figlio di immigrati a Los Angeles dall’Europa dell’Est, ottimo trombettista, scrive dopo una corrida a Tijuana, Mexico, “Lonely Bull”, e da quel momento diventa una incredibile macchina da hit di strumentali in stile lounge jazzato, valga per tutti “A Taste of Honey” incisa anche dai Beatles. Nel ’62 fonda la A&M, iniziali sue e del partner Jerry Moss, che negli anni 70 diventerà la più grande etichetta indipendente americana, con artisti di tutti i generi, da Joan Baez a Sting, dai Supertramp a Burt Bacharach. Quando accoglie sotto la sua ala Sergio Mendes, incontra un artista con una visione simile alla sua: i due musicisti hanno in comune un’idea di musica di gran classe, accessibile e raffinata insieme, ed è un legame che durerà sei anni e farà di Mendes una star internazionale.

Sergio è nato a Niteroi, dall’altra parte della baia di Rio de Janeiro, è figlio di un medico, ha studiato al conservatorio pianoforte e fin da giovane ha cominciato a frequentare e suonare jazz nei nightclub in città. I primi dischi di Mendes sono di puro jazz, c’è anche una collaborazione con Cannonball Adderley. Siamo nei tardi anni 50, il momento di esplosione della bossa nova, con la sua vena jazzata molto cool. Il suo mentore è Antonio Carlos Jobim, che della bossa nova e della musica brasiliana in generale è una colonna portante, che arrangia il suo secondo disco con i Bossa Rio, settetto carioca che riprende anche la sua ’Desafinado’. Sergio ritiene la Bossa Nova la porta verso la modernità per la musica brasiliana, e apportatrice di grandi melodie da reinterpretare in salsa jazz.

La dittatura in madrepatria, che inizia nel ’64, e la connection con Alpert, conosciuto dopo un suo concerto, lo spingono a trasferirsi a Los Angeles, in quegli anni mecca del cool jazz, intuendo che sia l’ambiente che il pubblico americano possano dargli una popolarità molto maggiore che in Brasile. Forma i Brasil ’65, un quartetto più due cantanti femminili, format che praticamente non abbandonerà più, aggiornando la data a man mano che passeranno gli anni. E così è, fin da subito: l’anno successivo esce “Herb Alpert Presents: Sergio Mendes & Brasil ’66”, aperto dalla versione della ’Mas Que Nada’ scritta da Jorge Ben, «la canzone in portoghese più conosciuta al mondo» (che diventerà hit internazionale due volte, perché nel 2016 la reinciderà in versione funky rap con i Black Eyed Peas).

È un album per certi versi storico, perché con il suo stile accessibile, piacevole, raffinato, Mendes apre la strada per il Brasile-da-esportazione: crea un ponte raffinato fra jazz, bossa nova e pop di matrice anglosassone, aggiunge un tocco “cinematografico” alla Henry Mancini, dando vita a una formula che gli porterà un successo, prima statunitense poi internazionale, di proporzioni clamorose.

Ancor oggi, oltre 60 anni di carriera e 50 dischi, viene considerato l’artista brasiliano più famoso al mondo. I suoi sei album seguenti per la A&M attingono al canzoniere brasiliano (brani di Marcos Valle, Milton, Dori Caymmi, Edu Lobo, Gilberto Gil, Vinicius De Moraes, oltre al sempre presente Jobim) come a quello inglese: riprende successi firmati dai Beatles (“Fool On the Hill”, “With A Little Help From My Friends”, “Norwegian Wood”, “Day Tripper”), Burt Bacharach (“This Guy’s In Love With You”, “The Look of Love”), ma anche “Chelsea Morning” di Joni Mitchell, “For What’s It’s Worth” dei Buffalo Springfield o “Scarborough Fair” di Simon & Garfunkel.

«Sono un interprete, e amo le grandi canzoni. Sono la chiave della musica, vuoi sentire quelle melodie che non puoi dimenticare», ha sempre detto: la sua è una palette di canzoni d’autore ben scelte e reinterpretate con quel feeling fra easy listening illuminato e latin-jazz ritmico e sinuoso. Le due cantanti, che varieranno a seconda dei periodi (Lani Hall, Karen Philipp, Geri Stevens, e la moglie Gracinha Leporace che rimarrà sempre al suo fianco) sono ottime interpreti, mai scolastiche, inglese perfetto con quella delicatezza brasiliana, grande senso della dinamica.

Sono album di piacevolezza infinita, che girano sui piatti di intenditori come di gente che probabilmente conosce il Brasile dalle cartoline e per le gesta di Pelè. Siamo lontani dalla MPB che si è maturata in patria, con Gil e Veloso in esilio e molti altri che resistono alle pressioni della dittatura: diciamo che Sergio prende dalla musica brasiliana melodie e quel feeling arioso di leggerezza, ed ha un approccio da jazzista, non da cantautore impegnato.

All’inizio degli anni ’70 Mendes è popolarissimo, alta considerazione da parte di fan e ambiente musicale, con una formula impeccabile e irresistibile sulla quale continuare serialmente. Ma nel ’72, allo scadere del contratto per la A&M, arriva a sorpresa un disco completamente diverso. Forse un ultimo disco con niente più da perdere in senso anti-commerciale, forse un esperimento, forse solo la voglia di tornare davvero a casa. Mosso dal desiderio di scendere un po’ da quelle altitudini di brezza fresca e deliziosi coretti, e di rimettere piede nella sabbia e nella terra carioca, Mendes pubblica un album veramente sorprendente: fa una conversione a U, senza freccia, e va in cerca di quelle atmosfere che nella sua musica da hit saranno anche presenti, ma davvero in tenue filigrana. Va in cerca delle sue radici, trova canzoni di autori brasiliani che non sono necessariamente i più famosi, ma che possano raccontare la varietà e la profondità della musica del Brasile. Anzi, idealmente va ancora più indietro, prima che samba e bossa definissero il sound contemporaneo, verso il primordiale, forse il suono della diaspora africana, che a fine 800 era ben superiore nei numeri agli indigeni e agli europei.

Sceglie canzoni evocative, con la capacità di rappresentare lati diversi della stessa ancestralità. E nel fare questo, ci consente di entrare e uscire da momenti fra leggenda e poesia, canzoni che hanno una storia, scritte a volte da autori che hanno un ruolo importante all’interno della musica di questo grande paese, in cui i tanti culti sincretici afro-brasiliani hanno la stessa varietà delle musiche tradizionali, diverse una dall’altra e allo stesso tempo solo ed esclusivamente brasiliane.

Comincia tutto da una spiaggia, con una dei brani più conosciuti di Dorival Caymmi, “Promise of a Fisherman (Promessa De Pescador)”. Caymmi è cantautore storico, uno dei grandi, capace di svariare con la sua voce bassa e piena su temi differenti; come ha detto Jobim, «Dorival è un genio universale. Ha imbracciato la chitarra e orchestrato il mondo». Quando è morto, Tom Zè -uno del primo gruppo dei tropicalisti che rivoluzionarono la musica brasiliana nei primi anni 60- ha detto: «è difficile capire quanto valore ci sia in un cd delle canzoni da spiaggia di Caymmi degli anni 40».

Un fischio lontano si avvicina, rispondono le note di un dolce steel drum. Poi entrano le congas, e un coro femminile vola sopra l’intreccio di percussioni e battito di mani, mentre un tamburino tiene un ritmo da rullante, le percussioni sembrano conchiglie. Ti immagini la sabbia e le onde, del resto dove si può recitare una preghiera del pescatore?, finchè non entra l’organo, sembra un organo da chiesa… piccola pausa, e ricominciano tutti insieme, mentre il coro intona un canto a Jemanja. 

I Brasil ’77 riprendono solo la parte strumentale dell’originale, che è una invocazione di un pescatore alla dea delle acque, protettrice di coloro che si avventurano per mare: 

“Signora che vieni dalle acque
Prenditi cura di mio figlio
Che anch’io venivo dal mare
Oggi ormai sono vecchio
Non riesco nemmeno a imbracciare una pagaia …
Alode, Yemanja, Oya!
Alode, Yemanja, Oya!”

Nella fusione sincretica che è avvenuta in Brasile fra le figure della fede cattolica e le divinità di origine africana, Iemanja corrisponde alla Vergine Maria dei Naviganti dei cattolici, una figura amatissima in tutto il mondo. Non a caso, a lei è ispirato l’omonima pittura del 1536, il quadro più antico riguardante la scoperta delle Americhe, che la vede trionfante al centro:

“Quando arriva il suo giorno
Il pescatore ti promette che
Il pescatore porterà
Un regalo molto bello
Per la signora Iemanjá…
È suo figlio quello che porta
Dalla terra al mare
Alode, Yemanja, Oya!
Alode, Yemanja, Oya!”

La versione originale con immagini di spiaggia e pesca la contestualizza. Quella dal vivo è molto più potente, veramente un inno.

La suggestione dell’inizio sfuma via, e un berimbau annuncia, e la morbidissima chitarra di Oscar Neves apre, una folk song senza parole, fatta solo di scat e di la-la-la che ti accompagnano con gioia. “After Sunrise”, scritta da Neves e Sebastian Neto (chitarra e basso dei Brasil ’66), è un canto alla natura, ti culla dolcemente come una madre col suo bimbo, aspettando che il sole salga del tutto e la vita possa cominciare. Grande pace.

Ci pensa il “Canto De Ubirantan” a risvegliare i muscoli, ritmo pre-sambesco indiavolato per un canto tradizionale riarrangiato. Propulsione che si gonfia sempre più, fino ad arrivare a regime, con la caratteristica ipnotica tipica della trance. Si decolla, finalmente? Ancora no, arriva un’altra chicca, la ripresa di “Iemanja” di Baden Powell, uno dei grandissimi della chitarra acustica, capace di svariare sull’arcobaleno di tutte le musiche brasiliane, dalla bossa nova al latin jazz.

Negli anni 60 incontra il poeta cantante Vinicius de Moraes, entrambi in fondo un po’ stanchi della bossa che avevano contribuito a creare, intrigati da quel misto di musica tradizionale della samba -anzi, le sambe, perché ce ne sono di tanti tipi- e di credenza religiosa che insieme sono il legame più evidente con le origini africane. Lo trovano a Salvador de Bahia.

Rio è lontana, siamo nel Nordeste, dove la popolazione di pelle nera è la maggioranza, e dove risuonano ritmi afro-brasiliani più veraci. Ma la regione è anche la culla del culto sincretico del Candomblè, influenza profonda su tutta la vita. Il risultato, “Os Afrosambas”, pochi suoni -voce, chitarra- per una musica densa e intensa, è una pietra miliare della musica brasiliana, un ritorno ancora più indietro nella storia che è in sintonia con la visione di questo progetto del pianista di Niteroi.

Ancora una volta viene presa solo la parte strumentale, che Sergio accompagna con il suo scat e la sua voce, forse limitata ma molto calda, come caldo è l’accompagnamento alla chitarra di Neves, degno erede di maestro Baden. Quando entrano anche le signore tutto diventa prezioso. Profondo e leggerissimo insieme, difficile a spiegarsi, ma questa è la magia del Brasile e di Mendes, si sa. La canzone intera col testo la trovate in “Afrosambas”:

Se vuoi amare, se vuoi amare
Vieni con me a Salvador per ascoltare Iemanjá
Cantando, nella marea che va e nella marea che arriva
Dalla fine alla fine del mare, molto oltre
Molto oltre la fine del mare, molto oltre
Yemanja, Yemanja…”

Cambia il brano, cambia la divinità. “Pomba Gira” è lo spirito afro-brasiliano che viene evocato nelle cerimonie Umbanda e Quimbanda, la sposa di Exu che è il messaggero degli Orixas, gli dei del culto del Candomblè, versioni sincretiche dei Santi cattolici che agiscono come energia divina in terra. Il poli-ritmo ha tutto di tribale, questa è musica da rituale sciamanico, che ha viaggiato ed è arrivata lontana, penetrando attraverso gente come Fela Kuti e James Brown, Santana o Marley fin negli angoli più remoti del pianeta.

Dove generalmente ha ritrovato altre versioni di sè stessa. Pomba Gira impersonifica la sessualità, la bellezza e il desiderio femminile, donna insaziabile venerata con attenzione e cautela perché capace di lanciare terribili maledizioni. L’Umbanda è un altro culto sincretico, un misto di cattolicesimo, spiritismo e credenze indigene indioamericane. E, guarda caso, sembra essersi originato a Niteroi. È considerato magia bianca, laddove il Quimbanda ha una natura meno europea e molto più dark, tendente alla magia nera, legata ai riti della Macumba nigeriana.

Prima che venisse bandito e osteggiato dalle Chiese Pentecostali, ai tempi di questo disco i seguaci dell’Umbanda erano circa un quarto, 30 milioni, degli abitanti del Brasile. I 2’30” sono ritmo rituale ancora una volta, canto a chiamata-e-risposta fra uomini e donne. Il testo che cantano a turno i lui e le lei, decifratelo voi per me: 

Pomba Gira jamukangê iaia orerê
Pomba Gira jamukangê iaia orerê
Pomba Gira jamukangê iaia orerê
Pomba Gira jamukangê iaia orerê”.

Sulla intera seconda del vinile ci sono i 18’ di una versione strecciatissima di “Jogo De Roda (The Circle Game)”. È una canzone di Edu (per convenienza, nome per esteso Eduardo de Gòes) Lobo, classe 43, altro personaggio di spicco della Musica Popolare Brasileira, voce calda e melodie gentili, dolci e complesse, che ha aggiunto tante melodie al canzoniere brasiliano. Al tempo di questo Lp ne ha già una decina in proprio al suo attivo, e ne pubblicherà in carriera almeno il doppio, di canzoni e di musiche per teatro e cinema. La sua versione originale di quello che è “il gioco della ruota”, più che “The Circle Game” che fa tanto Joni Mitchell, è qualcosa di melanconico, magnificamente arrangiato, cantato con grande morbidezza, un gioiello.

Gira la ruota, gira il tempo
Nasce una samba nella mia mano
Guarda la spiaggia, chiama il vento
Apri le braccia e la canzone
So dove sono
E so dove voglio andare
Mettiti al volante e gira anche tu”

Sergio conosce bene la canzone e conosce Edu, l’anno prima ha fatto ciò che Herb Alpert aveva fatto per lui sei anni prima, invitando Edu a Los Angeles e pubblicando per la A&M “Sergio Mendes Presents: Lobo”, con canzoni tradotte in inglese (come sarà, stessa etichetta, anche per il debutto americano di Milton Nascimento), cercando di introdurre negli USA uno spirito forse troppo brasileiro.

Il brano comunque i Brasil ’66 lo tramutano in una samba esplosiva, trascinante, che poi si placa e si trasforma. Parte qualcosa di insolito, una lunga jam di passaggi strumentali, attimi di totale rilassatezza e corse in avanti; grandi protagonisti, di fianco alla inevitabile salva di percussioni assortite e le chitarre, un poco di pianoforte jazzatissimo e il flauto di Tom Scott, amico losangelino che in quegli anni sta rivestendo di jazz la Joni Mitchell di “For The Roses”.

Unite i punti, e questo disco vi porta lontano, in giro per il mondo.
Quando quel richiamo lontano, simile a un sottile fischio, chiude l’album, riprendendo l’inizio della promessa del pescatore, hai la sensazione che a volte la musica è un veicolo straordinario, unico, per viaggiare nello spazio e nel tempo. “Primal Roots” è esattamente questo, un fiore che si schiude e rivela sapori e colori che sono lì da sempre. Siamo noi che, per ignoranza o per pigrizia intellettuale, non facciamo lo zaino e non partiamo. Perché nulla al mondo è meglio di un viaggio nella musica.

Canto de Ubirantan/Joga de roda.

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