Made in UsaL’Unione europea è (in parte) un’invenzione dell’America

Gli Stati Uniti hanno alimentato l’integrazione tra i Paesi del Vecchio Continente. Un articolo dell’Economist ripercorre il ruolo di Washington nella nascita di un soggetto sempre più unito, che però presto o tardi dovrà imparare a camminare sulle sue gambe

LaPresse

George Frost Kennan è una delle figure chiave della politica americana durante la Guerra Fredda. È considerato il padre della politica del containment ed è stato l’autore del “lungo telegramma”, un documento di 5.300 parole inviato da Mosca a Washington, in cui indicava la strategia da seguire nelle relazioni diplomatiche con i rivali comunisti.

Kennan però è stato anche uno dei politici statunitensi che hanno favorito la nascita dell’Unione europea. «Speravamo di costringere gli europei a pensare come europei e non come Stati nazionalisti», disse una volta. Non era l’unico a pensarla così. E, anzi, nel Dopoguerra molti esponenti della politica americana lavorarono per accelerare il processo di integrazione nel Vecchio Continente – anche se per parlare di Unione europea vera e propria ci sarebbero voluti alcuni decenni.

L’influenza statunitense nella formazione di un’Europa unita è stata sottolineata dall’Economist, che spiega perché l’attuale Unione europea può essere considerata una creazione americana tanto quanto una creazione europea.

«Dal Big Mac alla bomba nucleare, l’elenco delle conquiste americane del XX secolo è lungo. In un periodo di straordinarie invenzioni, l’America ha donato all’umanità il volo, la supercolla, il rock and roll, il razzo Saturn V, le Pop Tarts e Internet. Un’innovazione americana di quest’epoca invece riceve molta meno attenzione: l’Unione europea», scrive la rivista britannica. E poi aggiunge: «Dimenticate Jean Monnet. Quando si tratta di nominare i padri fondatori dell’Ue l’elenco dovrebbe iniziare con il presidente Harry Truman».

Lo stesso Piano Marshall, il grande programma di finanziamenti fornito da Washington agli Stati europei usciti con le ossa rotte dalla Seconda Guerra Mondiale, aveva come condizione che i Paesi europei si considerassero un insieme.

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’unificazione dell’Europa sarebbe stata una chiave di volta fondamentale per l’America, che da parte sua aveva un interesse che non poteva nascondere: un continente diviso difficilmente avrebbe potuto resistere allo strapotere del vicino sovietico, né avrebbe potuto mai risolvere quel dilemma sulle probabili mire espansioniste future della Germania che avevano provocato due guerre in trent’anni.

Forse c’era anche un rischio, per Washington: un soggetto giuridico forte nell’Europa occidentale avrebbe avuto un grande potere politico, economico, militare. C’era la possibilità che quell’entità ancora sconosciuta diventasse un potenziale rivale.

Quando Joe Biden è passato da Bruxelles il 15 giugno e ha detto che un’Unione europea integrata sarebbe stata interesse di tutti, in realtà ha solo ribadito un obiettivo americano di vecchia data. E ovviamente ha anche preso le distanze dalle posizioni diplomatiche di Donald Trump, che invece ha fatto del suo meglio per attaccare l’Unione e favorire scissioni come la Brexit.

L’articolo dell’Economist spiega il ruolo importante che possono giocare gli Stati Uniti anche semplicemente facendo valere il peso della loro storia democratica e federale: «Quando in Europa si discute se emettere debito collettivo, i politici europei si rivolgono ad Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori dell’America. Quando lottano su chi ha l’ultima parola legale, gli studiosi guardano agli stessi dibattiti che si sono svolti nell’America del XIX secolo. L’Unione è una bestia più unica che rara e la costruzione di un’entità unica può essere un affare complicato ma gli Stati Uniti forniscono ancora il miglior manuale di istruzioni su come gestirla, le poche linee guida per creare una democrazia di dimensioni continentali».

Oggi però l’integrazione europea non rispecchia proprio il modello di governance americano. «A volte», spiega ancora l’Economist, «l’integrazione europea è un sottoprodotto della politica americana: la predominanza delle realtà nazionali nel processo decisionale, come l’imposta sulle società, vengono lentamente storpiati nelle questioni europee grazie all’azione americana. Sono stati gli Stati Uniti, ad esempio, a spingere per la global minimum tax per le grandi imprese: questo ha contribuito ad avvicinare l’Unione a una politica fiscale comune più di tanti anni di macchinazioni a Bruxelles».

Un ruolo importante lo giocano anche le aziende private americane, che contribuiscono a oliare gli ingranaggi dell’integrazione europea. Un esempio può essere la diffusione delle tante piattaforme streaming, come Netflix, che contribuiscono a fare in modo che i cittadini europei guardino gli stessi programmi, scavalcando le barriere nazionali.

Allo stesso modo i social network come Facebook e Twitter ampliano la bolla di ogni persona, permettendo a chiunque di leggere cosa dice un politico europeo, ad esempio. E poi ovviamente anche la semplicità di uno strumento come Google Translate contribuisce a unire: un cittadino italiano domani potrebbe svegliarsi e decidere di leggere i giornali svedesi o bulgari, e riuscirebbe a comprendere il significato degli articoli.

Va detto però che non sempre gli Stati Uniti hanno giocato volontariamente a favore dell’integrazione europea. È successo di recente anche durante l’Amministrazione Trump: l’ex presidente americano ha ribadito più volte che il suo Paese non avrebbe offerto protezione infinita al continente, ma così facendo ha convinto gli Stati membri che Washington non sarebbe stato un alleato affidabile con lui alla Casa Bianca e che avrebbero dovuto imparare a difendersi da soli.

«L’Unione europea è ancora lontana dalla federazione fatta a immagine e somiglianza dell’America immaginata da Kennan, Truman e Marshall. La crisi della zona euro del 2008 ha lasciato perplessi gli americani, che non capivano come un’economia piccola come la Grecia potesse far saltare in aria il progetto di integrazione. All’inizio del secolo si parlava dell’euro come di un rivale del dollaro. Il quasi collasso dell’euro un decennio più tardi mise fine a quell’idea», scrive l’Economist.

Effettivamente un’Unione europea davvero forte a livello interno e internazionale è un soggetto che non ha bisogno del sostegno americano. Ma per il momento non è ancora così. Nel grande confronto tra Stati Uniti e Cina, Bruxelles gioca un ruolo marginale. L’ombrello americano, soprattutto quando si parla di difesa, oggi è fondamentale evitare situazioni molto scomode. «Non importa se, ad esempio, la Polonia o la Francia hanno problemi di sicurezza, purché l’America sia felice di sedersi dietro tutti loro», si legge ancora sul magazine britannico.

Washington ha bisogno di un’Unione europea più indipendente, anche se questo può comportare dei rischi – sostanzialmente per le stesse ragioni di sessanta o settanta anni fa.

Una Eurozona stabile, con capacità di emettere debito pubblico collettivo a piacimento, sarebbe un potenziale avversario per la supremazia del dollaro. Non a caso, laddove l’Unione ha potere, come sulla politica della concorrenza o sulle regole sulla privacy, si è divertita a colpire le aziende americane.

«Questi casi di competizione tra Europa e Stati Uniti», conclude l’Economist, «sono ancora rari, ma lo stanno diventando sempre meno. Un giorno, in futuro, l’America potrebbe arrivare a rimpiangere ciò che ha creato».

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