Stato di dirittiLa pandemia ha reso ancora più difficile abortire in Italia

I dati del ministero della Salute evidenziano un’alta percentuale di ginecologi obiettori nelle strutture e alcune Regioni ostacolano la somministrazione della pillola abortiva Ru486

LaPresse

Di interruzione volontaria di gravidanza si è tornati a parlare con la vicenda di Michele Mariano, l’unico ginecologo non obiettore di coscienza in Molise. Da pochi giorni, scrive un quotidiano locale, è affiancato dalla dottoressa Giovanna Gerardi, anche lei non obiettrice. Ma in questa regione la percentuale di ginecologi che considera l’aborto contrario ai suoi principi rimane la più alta a livello nazionale: 92,3. Eppure, dichiara l’Unione Donne in Italia in un suo comunicato, «ogni struttura deve prevedere un tetto alle obiezioni del personale medico interno».

Non sempre accade, come emerge dalla relazione sull’attuazione della legge 194/78, un documento che il ministero della Salute dovrebbe presentare al Parlamento ogni anno. Ma gli ultimi dati disponibili del 2018, sono stati trasmessi a giugno 2020, nonostante il ministero debba inviare la documentazione entro febbraio.

La percentuale non è alta solo in Molise. Per quanto riguarda l’Italia settentrionale, il numero maggiore di ginecologi obiettori lo registra Bolzano (87,2%). Nelle regioni centrali il primato è del Lazio con il 74,5% e delle Marche con il 69,3%. Le isole presentano dati diversi tra loro: l’82,7% della Sicilia si discosta di molto dal 57,7 della Sardegna.

Secondo Silvana Agatone, presidente di Laiga 194 (Libera associazione italiana ginecologi non obiettori), interpretare le cifre della relazione non è facile. Accade, per esempio, con il dato relativo alle strutture in cui si effettua l’interruzione volontaria di gravidanza, il 64,9% del totale. Ma «i numeri non chiariscono se a essere offerta sia l’IVG prima o dopo i 90 giorni», specifica la dottoressa.

La pandemia ha peggiorato l’accesso all’aborto e a sostenerlo non sono solo le associazioni femministe ma anche il Comitato europeo dei diritti sociali, un organo che vigila sul rispetto della Carta sociale europea da parte degli Stati contraenti. La Carta garantisce diversi diritti degli individui, tra cui quello alla protezione della salute, e l’Italia è uno dei Paesi Ue che si impegna a rispettarlo. Non del tutto, stando alle conclusioni del Comitato.

Alle considerazioni degli anni precedenti - permangono disparità di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza su base regionale e i medici non obiettori vengono discriminati rispetto agli altri colleghi - nel 2020 si è aggiunta l’emergenza sanitaria. Un momento in cui, secondo il Comitato, sono mancate linee guida e regole univoche sull’IVG.

È la stessa carenza segnalata dalla dottoressa Agatone: «All’inizio l’aborto volontario non era considerato un intervento urgente nonostante rientrasse tra le prestazioni indifferibili secondo il ministero della Salute». Inoltre, molti ospedali hanno chiuso il reparto di ostetricia e ginecologia, sospendendo o riducendo il servizio. «Per molte donne è diventato quasi impossibile reperire informazioni, quando andavano in ospedale ricevevano come risposta solo un “qui non si fa”», conclude la presidente di Laiga 194.

La sua associazione non è l’unica ad aver sostenuto le donne durante la pandemia. L’organizzazione no profit Luca Coscioni, insieme ad AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) e Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), ha proposto di creare un albo pubblico dei medici obiettori di coscienza e istituire concorsi pubblici riservati al 50% a medici non obiettori. Mentre Obiezione Respinta durante il lockdown ha creato un canale Telegram per monitorare lo stato del servizio di IVG e aiutare chi aveva bisogno di abortire.

Alla questione dell’obiezione di coscienza fotografata dalla relazione del 2018 se ne aggiunge una più attuale, il dibattito attorno alla pillola abortiva Ru486. Sul tema si fronteggiano i movimenti pro-choice e pro-life, i primi a favore dell’aborto, i secondi fermamente contrari. È esemplare la vicenda dei manifesti firmati dalla Onlus ProVita e Famiglia comparsi in diverse città italiane alla fine del 2020. Sopra l’immagine di una donna vestita di bianco e con in mano una mela rossa campeggiava una scritta dello stesso colore: «Prenderesti mai del veleno?».

Alludeva appunto al farmaco abortivo, che dopo le nuove linee guida del ministero della Salute può essere utilizzato per interrompere la gravidanza fino alla nona settimana e senza necessità di ricovero. L’aborto farmacologico è una procedura medica approvata dal Consiglio Superiore di Sanità e dall'Agenzia Italiana del Farmaco, ostacolata in alcune regioni come il Piemonte, l’Umbria, le Marche e l’Abruzzo (tutte amministrate dal centro destra).

La libera scelta delle donne è insidiata da più parti. Alcune Regioni hanno autorizzato l’ingresso dei movimenti per la vita nei consultori e nelle strutture pubbliche, altre sono andate contro le nuove indicazioni nazionali sulla Ru486. E su tutto il territorio rimane elevato il numero di personale medico obiettore. Ma la dottoressa Agatone ne è convinta, lo strumento per garantire l’accesso corretto all’IVG lo abbiamo già: «La legge 194 è adeguata, si tratta solo di farla applicare bene».

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