Sono passati poco più di sei mesi, da quando il Tribunale costituzionale polacco si è pronunciato sull’inammissibilità dell’aborto in caso di malformazione del feto: un ulteriore restringimento della possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, che resta legale solo in caso di rischio per la salute della madre, stupro o incesto. Si tenga conto che la quasi totalità degli aborti legalmente avvenuti in Polonia nel 2019 (1074 casi su 1110, il 97,6%) era connessa proprio a problemi riscontrati durante l’indagine prenatale: la quasi totalità.
Il verdetto del Tribunale risale al 22 ottobre 2020. Ne sono seguite imponenti proteste di piazza cui il governo ultra-conservatore del PiS (Diritto e Giustizia) ha risposto, il 27 gennaio 2021, pubblicando il pronunciamento e rendendo esecutiva la legge. Malgrado le legge sia operativa da tre mesi, in realtà già dal 23 ottobre 2020 molti ospedali si rifiutavano di procedere all’interruzione della gravidanza. Attualmente i medici che si prestino a eseguire un aborto non previsto dalla nuova legge rischiano fino a tre anni di carcere.
Il quotidiano “Gazeta Wyborcza” ha riportato il caso di una donna incinta di due gemelli siamesi che non riusciranno a sopravvivere: i medici che la seguono, tuttavia, hanno paura di ordinare l’interruzione di gravidanza per non incorrere in sanzioni o procedimenti della procura. Casi di questo genere, scrive il quotidiano polacco, stanno aumentando in modo preoccupante.
A fronte della situazione interna, le donne polacche si rivolgono di frequente ad associazioni che procurino loro le pillole per interrompere la gestazione, acquistabili legalmente solo con ricetta medica, o le aiutino ad abortire all’estero. Aborcja bez granic (Aborto senza confini), una di queste realtà associative, ha pubblicato un report che riassume l’attività dell’ultimo semestre. Nel documento si legge che nel primo anno di attività (2019-20) dell’associazione furono oltre 5.000 le donne supportate a vario livello, anche solo rispondendo alle loro domande via mail o telefono; mentre, dal 22 ottobre 2020, questa cifra è salita già a 17.000. Inoltre, delle 597 persone che hanno fatto ricorso all’aborto all’estero nel secondo trimestre di gravidanza, ce ne sono 163 che, come conseguenza della nuova legge, hanno dovuto espatriare per problemi legati alla malformazione del feto.
Il report di Aborcja bez granic conclude che, malgrado le dure restrizioni opposte dalla nuova legge, le donne polacche continuano ad esercitare una libera scelta grazie alle organizzazioni che le seguono e alla mobilità europea. Quest’ultima, in realtà, a seguito delle limitazioni imposte dalla pandemia da Covid-19, ha potuto essere usufruita assai poco negli ultimi sei mesi, il che ha influenzato significativamente i numeri registrati dal report. Basti pensare che un’altra associazione, Federacja na rzecz Kobiet i Planowania Rodziny (Federazione per la donna e la pianificazione della famiglia), stimando un numero compreso tra 80.000-200.000 donne che nel 2016 avevano fatto ricorso all’aborto, reputava che il 10-15% di loro lo avesse compiuto all’estero. Ovvero, un minimo di 8.000 persone: una cifra molto superiore a quella attuale, pur facendo le debite proporzioni.
I dati relativi agli aborti compiuti all’estero, che andrebbero implementati con le iniziative personali slegate dalle varie associazioni, potrebbero tornare ad allinearsi una volta fuori dall’emergenza pandemica; in generale, tuttavia, si può già affermare che la decisione assunta dal Tribunale, tramutatasi poi in legge, andrà a impattare ulteriormente sulle fasce più povere delle donne polacche che desiderassero ricorrere all’interruzione di gravidanza. Molte di loro non sono neanche a conoscenza della possibilità di appoggiarsi a organizzazioni che le aiutino nel sostenere le spese, o le indirizzino in generale.
La scorsa settimana si è scatenata una polemica tra Polonia e Cechia, dove maggiormente si dirigono le donne polacche per abortire. L’annuncio di un aggiornamento della legge ceca sull’interruzione di gravidanza ha fatto rischiare l’incidente diplomatico.
Nella Cechia, l’aborto è legale fino alle prime 12 settimane di gravidanza; oltre tale termine, è richiesta l’approvazione da parte di una commissione medica. È garantito di fatto a tutte le cittadine europee che arrivino nel Paese, nonostante la legge, che risale agli anni ’80, lo riservasse solo alle straniere che vi risiedevano stabilmente. Il Parlamento dunque sta lavorando a una nuova norma che fotografi la situazione esistente, anche per tutelare i medici dal punto di vista legale e in vista di un aumento delle richieste dovuto proprio alla nuova legge polacca sull’interruzione di gravidanza.
Alla diffusione della notizia ha reagito scompostamente, scavalcando ogni gerarchia diplomatica, il vice ambasciatore polacco a Praga, Antoni Wręga, dicendo che con la nuova legge la Cechia intende intervenire direttamente in questioni interne alla Polonia e favorire il boom del “turismo abortivo”, aiutando le donne polacche a infrangere la legge. Una decisione simile, ha aggiunto Wręga, porterebbe senz’altro al peggioramento dei rapporti tra i due Paesi.
Il ministero degli Esteri polacco non solo non ha smentito la lettera di Wręga, ma ha anche sostenuto in un comunicato l’iniziativa dell’ambasciata: “Il monitoraggio del processo legislativo nei Paesi in cui ci siano nostre sedi, in particolare nelle aree che riguardino o possano riguardare in modo significativo i cittadini polacchi, non è solo un diritto, ma anche un obbligo delle ambasciate polacche”. La risposta ceca, naturalmente, non si è fatta attendere: “A peggiorare le relazioni polacco-ceche sono alcuni politici polacchi, che interferiscono nella materia dei diritti che riguarda la Cechia”, ha dichiarato tra gli altri Radek Policar, viceministro della Giustizia.
Anche se lo scontro pare alimentato ad arte per puri fini elettorali dal governo del PiS, l’atteggiamento denota una costante rigidità sul tema che lascia presagire tempi ancora lunghi per le istanze delle donne polacche.