Il cirinnismo Tutti gli (evitabili) errori di Letta sul ddl Zan

Quando alla politica si sostituisce la propaganda, le leggi si impantanano. In questo caso ripetere fino allo sfinimento che “i numeri ci sono” quando tutti sapevano e sanno che non è così, o almeno, può non essere così, è stato deleterio

LaPresse

I fatti, innanzi tutto. La legge Zan contro l’omotransfobia si è impantanata al Senato dove fra la lunghezza di una discussione generale di  basso livello e l’imminente presentazione degli emendamenti è destinata a bloccarsi – a meno di un miracolo – anche perché palazzo Madama deve convertire in legge i ben più importanti provvedimenti economici del governo. Come ha ben scritto Laura Cesaretti sul Giornale, «con il generale Agosto che incalza, le speranze di riuscire a mandare avanti l’iter della legge prima della pausa estiva diventano esili», il che peraltro potrebbe servire per far decantare una situazione irrigidita grazie alla obiettiva “convergenza parallela” di Enrico Letta e Matteo Salvini. 

Non era difficile ipotizzare che andasse così. Il Parlamento è una brutta bestia e chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le dinamiche parlamentari sa che quando una situazione è bloccata è inevitabile rinviare. Non è bello, però, per un Pd che ha levato la sua voce persino con accenti lirici e addirittura integralistici (Monica Cirinnà: «Meglio morire in battaglia») presentarsi davanti al “Movimento” pro-Zan dicendo «scusate, ora andiamo al mare, poi ne riparliamo a settembre». Non è una bella figura. Si è sbagliato a accelerare la calendarizzazione della Zan in aula. Soprattutto si poteva e si può parlare della Zan come di una legge importante ma non dipingerla alla stregua del divorzio e dell’aborto, due battaglie che cambiarono la faccia del Paese.

Questo succede quando alla politica si sostituisce la propaganda. La propaganda, in questo caso, è consistita nel ripetere fino allo sfinimento che “i numeri ci sono” quando tutti sapevano e sanno che non è così, o almeno, può non essere così, soprattutto con il voto segreto, e qualunque politico di medio livello non va alla conta se non è sicuro di avere i rapporti di forza dalla sua parte. 

Ci siamo chiesti su Linkiesta perché il segretario del Pd si sia incaponito in una battaglia destinata a non essere vincente, addirittura cercando di scovare nella sua cultura “giansenista” le ragioni di questa indisponibiltà a trattare: è che egli ha bisogno di una vittoria “sua” raggiungibile persino perdendo la sfida in aula ma a viso aperto, “cirinnescamente”. E soprattutto se lo sono chiesto i senatori dem nella riunione di mercoledì nella quale sono prevalsi i dubbi sulla linea “Zan o morte”. Cosa concluderne? O Letta ha sbagliato tutto o c’è qualcosa che non torna. Nel senso che si è bluffato e che ora si va al tavolo. Può essere una lettura giusta. Come può anche darsi che il segretario si stia convincendo che è opportuno cambiare strada. Senza dirlo, per carità.

Infatti adesso c’è chi sussurra che il Pd stia sperando proprio in quello che viene dipinto come il mostro, Matteo Renzi. Complice l’auspicato rinvio (anche questa speranza non viene confessata) non sapremmo dire se la maggioranza ma certo un bel pezzo del gruppo del Pd confida che il leader di Italia viva sia in grado di costruire quella mediazione con la destra che i dem non sanno o non vogliono provare a imbastire. 

Se trattasse con la Lega, Letta entrerebbe in contraddizione con se stesso, avendo egli scelto di demonizzare gli “orbaniani” con cui peraltro governa e vota insieme tutti i provvedimenti del governo (com’è, in quel caso diventano socialdemocratici?), nella convinzione che Salvini vuole solo affossare la legge: ma se quest’ultimo ha i voti per farlo, perché non  provare a smontargli il gioco? Il Pd – in tutte le sue componenti, compresa la sinistra politica e non ideologica di Orlando (al Senato rappresentata con serietà da Antonio Misiani) – tutto questo lo sa bene. Lo sanno Orlando, Franceschini, Guerini, e al Senato appunto Misiani, Valeria Fedeli, Valeria Valente, Alessandro Alfieri e lo sa ovviamente Andrea Marcucci, l’esponente che più da vicino seguirà le mosse di Renzi.

Malgrado l’esibita intransigenza di Letta, dunque, la verità è che il Pd è entrato nella logica emendativa. Ha dunque scartato il “cirinnismo” cantore della “morte in battaglia” che a dire il vero era coperto dal gruppo dirigente lettiano, e pertanto si è visto ancora una volta come Letta abbia difficoltà con i suoi parlamentari, e non perché “renziani” ma proprio perché hanno un polso più autentico, più realistico della situazione.

Letta poi non si è reso conto di essere come partito abbastanza isolato. Dove sono i grillini in questa battaglia? Erano distratti dalla lotta di Conte contro Grillo e quindi più pensosi dei loro interessi personali che dei diritti civili: d’altra parte non li ricordiamo in trincea nemmeno sulle unioni civili, a dimostrazione che su questo terreno mancano proprio i presupposti per una vera alleanza politica. 

Quanto all’arcipelago di centro ha funzionato di più, e non c’è da stupirsene, l’idea di cercare un compromesso, come in parte era già avvenuto alla Camera. Ma poiché i numeri al Senato sono ancora più ballerini, ecco che se si vuole portare a casa il cuore della legge bisogna trovare dei punti d’incontro con gli altri. Finora, diciamo la verità, questi tentativi non ci sono stati. Ci sono state le manfrine di Ostellari e molti comizi. La politica non si è vista.

Un accordo è difficile. Ci si può provare, almeno. Non sembra impossibile rivedere gli articoli 4 e 7. Più problematico rivedere l’articolo 1. Non sappiamo se sarà possibile giungere a un testo condiviso, sappiamo però che il muro contro muro è crollato.

Matteo Renzi dunque, piaccia o non piaccia, si è messo al centro della vicenda ma lavorando per una soluzione che vada bene anche al suo ex partito. Avrà pure il 2% che gli attribuiscono i soliti sondaggi e però le sue posizioni stanno emergendo come le più ragionevoli: da lui bisogna passare. In un certo senso sta ripetendo l’operazione che portò alla caduta del Conte 2 quando il Pd all’epoca diretto dai “consoli romani” Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini strillava “o Conte o elezioni” agitando uno spauracchio che non mise paura a nessuno e illudendosi, anche allora, che i numeri (per un Conte 3) vi sarebbero stati. Si è visto com’è finita allora. Si vedrà come finirà anche stavolta. 2 a 0 per Renzi.

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