Riscordati di meCronache di Esmeraldo Olvido, l’oblivionabile

In “Primo Foglio, 1998 - 2000”, uno dei quattro volumi che raccolgono i monologhi scritti per Il Foglio tra la fine di un secolo e l’inizio del seguente, il poeta romano mostra il suo microcosmo letterario, un flusso di coscienza che unisce quotidiano e surreale: «Così, d'oblio in oblio, io vivo perché loro mi rinviano a un me stesso che rivive quando è scomparso in me»

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Da “Primo Foglio, 1998 – 2000”, SPedizioni editrice, il primo dei quattro volumi che raccolgono i monologhi scritti per Il Foglio tra la fine di un secolo e l’inizio del seguente. Insomma, ero a cavallo.

Non voglio essere l’antipatica tartaruga primatista. Voglio essere Achille che mai la raggiunge. Mi spiego: io sono Esmeraldo Olvido. Certo che mi conoscete, però disconoscendomi. Ho lavorato talmente intorno alla mia dimissione, so benissimo cosa succede, so benissimo come. Faccio il dimenticabile, il lacunare, il negligibile. L’oblivionabile io sono. Metto le cose in questo modo: le metto in imbarazzo.

Ora l’imbarazzo è una figura che teme i testimoni. Io fui pittore e imbarazzai i colori e le forme. Naturalmente chi guardava quei quadri si sconcertava di quello sconcerto e, dopo i quadri, cominciava a guardare intorno a sé, e intorno a sé vedeva altri impacciati, inceppati, confusi, che roteavano gli occhi; poi tutti diventavano ballerini girevoli, trottole da smemoramento. Uscivano dalla galleria come cirri di fumo dispersi da un vortice, secondo il democratico spargimento impresso da una spirale alle proprie curve trascendenti. Alle volte tra i visitatori di una mostra nascono amori, noiose amicizie, bazzicamenti, queste cose un po’ da disperati. Ecco: io toglievo loro la disperazione, perché i visitatori delle mie esposizioni si sarebbero ignorati per sempre, per sempre evitati, ognuno considerando non tanto turpe l’altro ma sé stesso.

Trattenevano in sé quel senso di pantaloni calati all’improvviso, caduti flosci sulle scarpe per un disasolarsi dei bottoni, per una sdentatura di chiusure lampo, per una frusta in aria di bretelle, quello sgomento enorme di calze cedue e molli, discese come taralli lenti intorno alla caviglia, quando quelle calze sono il cuore. Queste cose che si sognano, questi terrori senza nascondigli. Poi pareva a tutti d’aver ficcato l’occhio dentro un buco al di là del quale pungenti oscenità ronzavano come calabroni che coi loro spilloni centravano come un bersaglio il buco e quindi le pupille. E al momento della trafittura cadevano le brache a tutti quanti, le gonne e gli slippini.

Certo che si smemoravano di me. I critici, con una mano davanti e una dietro, correvano a cercar siepi come colti dall’urgenza di recensire trifogli e biancospini. Così io entravo nel braccio della morte, e passavano gli anni nell’attesa, durante i quali facevo il can che dorme. Così arrivava il giorno dell’esecuzione, e lì, di botto, prendevo decisioni: evadevo di nuovo nell’arte. Dopo essere stato pittore divenni musicista.

Ai miei concerti la frase melodica allungava le mani, scendeva in mezzo al pubblico scorrendo, si diramava in dita mentre le armonie tappezzavano di arazzi e godimenti le pareti, le volte e le poltrone. Stoffe e colori, tutto in movimento. Chi afferrava con le mani i braccioli li percepiva erogeni d’un tratto. Le porte dei palchi sbattevano come quelle degli alberghi del libero scambio. I violini squarciavano veramente l’aria con lacerazioni sonore che erano strappi d’abito, gli ottoni fiatavano carni di ballerine, le percussioni non lasciavano immaginare nulla, tambureggiando sfacciatamente; le viole d’amore, i violoncelli e l’arpa gocciolavano lungo le corde perché dal pianoforte scoperchiato erompeva un geyser la cui colonna, sfiorato il soffitto, ricadeva piovendo come la stessa colonna ma terremotata in perle.

La critica, una mano davanti e l’altra dietro, scappò via, dopo aver subìto più che fatto i suoi rabbiosi comodi furtivi, giustamente vergognandosi di sé. E corse ad assolvere il pittore perché, se non come artista, come male era minore. Questa è la mia vita, così pregresso io vivo. La critica mi rivaluta anteriormente a me. Entro tra le braccia della morte e attendo, invano per loro. Sono stato attore e ho visto file di penosi revisionisti ingrossarsi, li ho visti correre in soccorso del musicista che fui, ignorando me che recitavo incarnando direttamente l’oscenità d’ogni pensiero d’ogni spettatore. Ancora mani davanti e mani dietro eccetera eccetera…

Così, d’oblio in oblio, io vivo perché loro mi rinviano a un me stesso che rivive quando è scomparso in me. Tra qualche giorno sarò un ballerino e parleranno bene dell’attore. Non lo so se terminerò la mia carriera come mummia concettuale o come installazione vampiresca, o come riproduzione di Sodoma e Gomorra a Roma, in scala di due a uno: due mammellone di budino urbano, una di qua, una di là del Tevere, oppure come Prima Visione di ogni film… sarà da ridere.

Vi ho pizzicato, voi critica e voi pubblico (che siete sempre più la stessa poltigliosa e blanda cosa): tanto schizzinosi, tanto incontentabili… poi tanto uniti, da che? Dal casereccio pudibondo, astinente, verecondo, castigato, onesto, morigerato, insomma candido e candidato, quindi eletto alla vostra destra, e stasera verrà con voi a dormire costumatamente… niente carni, non sia mai. Così, reciproci, vi testimoniate sobri e puri.

Questo è l’ecumenismo critico: il contrario di quello che, via dalla casta folla, vi spingerebbe a congiunzioni strette strette e spinte spinte, sregolatamente. Con me. Vergogna!

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