Al momento di annunciare il suo recente viaggio in Europa, il presidente americano Joe Biden ha insistito su un tema centrale della politica estera statunitense. Può essere sintetizzato così: è più che mai necessario rilanciare le democrazie di tutto il mondo e frenare gli interessi di Russia e Cina.
Per Biden è il grande nodo del quadro internazionale: nella sua visione delle cose, il mondo è a un punto di svolta, un momento cruciale in cui si determinerà se questo secolo segnerà un’altra era di dominio democratico o, invece, una crescita dei regimi autoritari.
La precedente amministrazione di Washington ha contribuito a esasperare questa condizione. Con Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno ricreato un ambiente da competizione tra grandi potenze. Biden sa cosa ha ereditato dal suo predecessore, ma lo legge in modo diverso: «Se per Trump era un gioco a somma zero, in cui i primi argomenti sul tavolo erano quelli economici, per l’attuale presidente la competizione è parte di un problema più ampio che vede a confronto coloro che credono che l’autocrazia sia il modo migliore per andare avanti e coloro che portano avanti i valori democratici», scrive la rivista Foreign Affairs in una lunga analisi, firmata da Hal Brands, sulla politica estera di Biden.
L’articolo della rivista di geopolitica individua tre grandi minacce per le nazioni democratiche: la prima è quella delle potenze autoritarie, a partire da Cina e Russia. «Questi Paesi minacciano le nazioni democratiche dall’Europa orientale allo stretto di Taiwan. Ma la sfida che pongono è tanto ideologica quanto geopolitica: vogliono indebolire, frammentare e sostituire il sistema internazionale esistente perché i suoi principi liberali fondamentali sono antitetici alle loro pratiche illiberali», si legge su Foreign Affairs.
La seconda minaccia è quella proveniente dai problemi transnazionali. La pandemia in questo senso è un esempio perfetto: non è solo una calamità che accade ogni cento anni, ma una sfida all’idea che le democrazie possano rispondere efficacemente ai pericoli più urgenti, e magari rispondere in maniera congiunta.
La terza minaccia è il decadimento della democrazia all’interno dei singoli Stati. «Negli ultimi anni – scrive Hal Brands – in tutto il mondo i sentimenti antidemocratici e l’insoddisfazione per le istituzioni hanno raggiunto livelli che non si vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale. Queste tendenze sono di per sé allarmanti, fanno in modo che gli Stati Uniti e i suoi alleati siano più vulnerabili alle tendenze autoritarie».
In questo contesto, Biden dovrà ergersi ad alfiere del mondo democratico. E le sue decisioni e le sue dichiarazioni su questo tema formeranno la “Dottrina Biden”.
Il presidente americano è un politico di lungo corso e le sue idee, il suo modo di tessere le relazioni personali e il modo di rapportarsi ai problemi globali sono conosciuti. Ma una vera e propria dottrina di politica estera ancora non è stata individuata, non in maniera netta almeno.
«La politica estera di Biden parte dal presupposto che oggi più che mai la supremazia della democrazia è in pericolo. Quindi la sua priorità è riparare quelle alleanze con le democrazie storiche per creare una falange democratica globale e un fronte unito contro Russia e Cina», si legge nell’articolo.
La dimostrazione pratica di questi concetti sta ad esempio nelle dichiarazioni con cui ha promesso a Putin ritorsioni in caso di attacchi informatici; nelle sanzioni alla Bielorussia di Lukashenko; nelle sanzioni ai funzionari del Pcc cinese coinvolti nella repressione degli uiguri dello Xinjiang.
«La certezza è che la sua strategia si basa sull’idea che gli Stati Uniti possano meglio controllare l’avanzata autoritaria attraverso una più profonda solidarietà con le democrazie consolidate, come Canada, Regno Unito e Unione europea. Ma limitare il potere russo e cinese, sia militarmente che diplomaticamente, richiederà anche la cooperazione con governi imperfetti o addirittura autocratici in paesi dalla Polonia e Turchia al Vietnam e alle Filippine. Dopotutto è una cosa che gli Stati Uniti avevano fatto anche durante la Guerra Fredda costruendo relazioni produttive, anche se transazionali, con mezze democrazie e regimi autoritari veri e propri», scrive Foreign Affairs.
Il parallelo con il periodo della Guerra Fredda è appropriato: l’approccio di Biden sembra incredibilmente simile a quello mantenuto da Harry Truman dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi.
«Nel momento presente nella storia del mondo, quasi ogni nazione deve scegliere tra modi di vita alternativi. La scelta troppo spesso non è libera. Uno stile di vita si basa sulla volontà della maggioranza e si distingue per libere istituzioni, libere elezioni, libertà di parola e religione. Il secondo stile di vita è basato sul terrore e l’oppressione, una stampa e radio controllate, elezioni fisse e repressione delle libertà personali». Con queste parole l’allora presidente degli Stati Uniti parlò al Congresso il 12 marzo 1947: per tutti, questo discorso è quello che ha fatto conoscere al mondo la “Dottrina Truman”.
Il paragone è stato proposto recentemente da un articolo di Foreign Policy, che trova un filo conduttore nelle dichiarazioni dei due presidenti: anche Biden vede il mondo diviso tra nazioni democratiche e dittature aggressive che lavorano per indebolire il mondo liberale.
Lo scorso 3 marzo è stata una bozza di strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden. Il documento di 23 pagine intitolato “Guida strategica per la sicurezza nazionale provvisoria” può essere letto come il fondamento delle sue azioni.
Nella prefazione Biden scrive: «Credo che siamo nel bel mezzo di un dibattito storico e fondamentale sulla direzione futura del nostro mondo. C’è chi sostiene che, date tutte le sfide che dobbiamo affrontare, l’autocrazia è il modo migliore per andare avanti. E c’è chi capisce che la democrazia è essenziale per affrontare tutte le sfide del nostro mondo che cambia. Dobbiamo dimostrare che il nostro modello non è una reliquia della storia».
L’abitudine di inquadrare la dottrina dei presidenti degli Stati Uniti è vecchia di duecento anni. Nacque con il celebre «l’America agli Americani» con cui James Monroe, nel 1823, intimò ai Paesi europei di non provare più a colonizzare l’emisfero occidentale. Da lì in poi gli Stati Uniti hanno sempre cercato di definire con precisione il pensiero dei loro presidenti in politica estera. Ma con Biden è sempre stato difficile, nonostante si tratti di un politico che lavora a Washington da decenni.
L’analisi fatta da Hal Brands su Foreign Affairs è una delle prime che definisce con elementi chiari la visione e l’approccio di Biden, anche da un punto di vista pratico.
«Gli Stati Uniti vogliono rafforzare la coesione e la resilienza della comunità democratica contro i suoi rivali autocratici , dal momento che molti pericoli per la democrazia richiedono una risposta globale. Non a caso un primo vertice del G7 ha prodotto un linguaggio comune sulla minaccia cinese. E sono già stati annunciati piani per distribuire quasi due miliardi di vaccini Covid-19 alle nazioni in via di sviluppo», si legge su Foreign Affairs.
Certo, la sfida ai regimi come Russia e Cina si gioca su tanti altri campi.
C’è quello tecnologico e della sicurezza informatica: «La Russia sta usando attacchi informatici e disinformazione per sbilanciare le democrazie e mettere i propri cittadini gli uni contro gli altri; la Cina usa la censura per punire le critiche, cioè la libertà di parola, nelle democrazie avanzate dall’Europa all’Australia e fornisce agli autocrati del mondo gli strumenti e le tecniche di repressione», si legge nell’articolo. E c’è l’aspetto strettamente militare: la competizione tra superpotenze va sicuramente oltre il potere militare, ma i valori democratici non salverebbero il mondo libero in uno scontro a fuoco.
«Dobbiamo però riconoscere a Biden – conclude l’articolo di Foreign Affairs – almeno un primo grande merito in politica estera: ha correttamente identificato la sfida principale della nostra epoca. Ora arriva la parte difficile, deve rendere reale la sua strategia e farla funzionare».