La forma agonistica che si impone come maggiormente attrattiva, soprattutto in Cina, è rappresentata da League of Legends, videogioco di strategia ad ambientazione fantasy, che, nelle sue forme competitive, viene giocato da due team, composti da cinque giocatori ciascuno.
È la stessa azienda americana che lo sviluppa e commercializza, la Riot Games, a organizzare, nel 2011, la prima edizione del League of Legends World Championship, torneo annuale che prevede una fase di qualificazione su base continentale, seguita da una fase finale con scontri diretti a eliminazione.
Nel volgere di un decennio, l’evento riesce a imporsi all’attenzione mondiale, conquistando un seguito sempre maggiore, soprattutto tra i giovanissimi, e sancendo un netto dominio asiatico sia sotto il profilo agonistico che sotto quello della diffusione mediatica: su dieci edizioni disputate, nove sono state vinte da team asiatici – un’egemonia coreana e cinese pressoché totale.
Nella finale mondiale disputata all’AccorHotels Arena di Parigi l’11 novembre 2019, di fronte a un pubblico di 25.000 spettatori e a un’audience planetaria di 40 milioni di persone, è un team cinese a ottenere la vittoria, FunPlus Phoenix, come cinese è l’Mvp della manifestazione, il giovanissimo Gao “Tian” Tian-Liang, che chiude la finale da imbattuto, nonostante non dovesse prendere parte al torneo, salvo ripensamento in extremis su spinta della fidanzata.
Il potere della vittoria digitale parla cinese anche per altri aspetti: cinesi sono, attualmente, gli investimenti maggiori nella formazione di gamer professionisti, nell’organizzazione di club, competizioni e leghe, nella costruzione di impianti dedicati, con un’accesa concorrenza interna fra le grandi città per fregiarsi del titolo di “capitale” degli esport. Lotta che ora vede svettare Shanghai, ospite, non a caso, della fase finale dell’edizione 2020 del League of Legends World Championship, in una “bolla” creata all’interno del nuovo stadio cittadino, il Pudong Football Stadium, inaugurato proprio per questa competizione – un inedito matrimonio tra le due grandi tendenze che stanno ormai sopravanzando il modello sportivo basato sui successi olimpici.
Cinese è anche la società egemone del mondo esport, il colosso Tencent, capace di raggiungere i 70 miliardi dollari di fatturato nel 2020 e che nel 2015 ha rilevato Riot Games, gestendo oggi lo sviluppo organizzativo di una nuova lega sportiva che, pur avendo, al momento, numeri assoluti non ancora così elevati, ha tutte le potenzialità per diventare nei prossimi decenni una nuova Nba del futuro, sia dal punto di vista dell’espansione del consumo dei suoi spettacoli che dalla presa attrattiva sulle fasce giovanili del pubblico, come confermato dall’aumento delle sponsorizzazioni di grandi brand mondiali – come se non bastasse, Tencent, in Cina, possiede anche i diritti di trasmissione degli odierni campionati Nba.
Anche in questo caso, c’è un “Ma” al centro di tutto: non il Jack di Alibaba, bensì Pony, proprietario di Tencent, nonché uomo più ricco della Cina.
L’egemonia cinese sullo sviluppo mondiale degli esport pone una questione filosofica rilevante: è legittimo considerare queste nuove gare digitali come sport? È una domanda con forti ricadute pratiche, considerato l’acceso dibattito nato dalla richiesta del loro inserimento nel programma olimpico, che, come quella americana circa l’inserimento del calcio femminile ad Atlanta 1996, gode di una forte spinta lobbistica da parte di numerosi comitati olimpici asiatici.
Per rispondere alla domanda, è necessario tornare indietro agli agoni olimpici e al criterio in essi stabilito, che diventerà valido per tutte le epoche successive: “sport” è la parola che indica la contesa per la vittoria tra corpi in movimento modellati dall’allenamento, in cui il sudore è il segno tangibile della combustione energetica necessaria a far lavorare i muscoli degli atleti. Dove ci sono gare sportive, c’è sempre questa “teatralità” dei corpi in azione.
La prima grande difficoltà a pensare come appartenente al mondo dello sport questa inedita declinazione agonistica dei videogiochi è proprio legata al senso attribuito al corpo: se è fermo, quasi immobile, accomodato, non siamo più nel campo dell’agonismo sportivo, bensì nel regno della sua antitesi, la sedentarietà?
Anche gli scacchi (o il Go, per restare in terra asiatica) possiedono una dimensione fortemente agonistica e richiedono uno sforzo cognitivo finalizzato al raggiungimento della vittoria elevatissimo, ma non sono mai stati ammessi ai Giochi Olimpici proprio per l’assenza di movimento fisico; lo stesso argomento vale per il bridge, gioco amato da Deng a tal punto che, in occasione dei campionati del mondo 1981, disputati negli Stati Uniti, la International Bridge Press Association lo insignì di un premio.
Eppure, contrariamente alla percezione comune, negli esport la dimensione di movimento corporeo degli atleti è presente e decisiva: durante le loro gare, i corpi degli atleti digitali sono seduti, ma in movimento. Per una particolare ironia della storia, il Paese che con il suo comitato olimpico nazionale si sta opponendo con più forza al riconoscimento olimpico delle competizioni digitali, facendo leva proprio sulla ragione sopra esposta, la Germania, è lo stesso da cui proviene Ingo Fröbose, lo scienziato dello sport che ha aperto un nuovo campo di ricerca nella scienza dello sport per dimostrare la tesi contraria.
Due le evidenze principali raccolte nei suoi studi pionieristici. La prima riguarda i movimenti compiuti sulla tastiera e sul mouse dalla mano di un gamer professionista in un minuto di competizione: circa 400, pari a quattro volte quelli di un normale impiegato; una sollecitazione della coordinazione oculo-manuale intensissima, fattore alla base dell’età giovanissima e della durata molto breve delle carriere dei gamer professionisti, considerato il precoce declino biologico di queste caratteristiche – è curioso pensare al fatto che guardare oggi le loro gare significhi avere una raffigurazione, per quanto insolita, dell’agonismo olimpico dell’età antica, in cui due categorie su tre erano riservate a bambini e ragazzi.
Se c’è uno sport “pre-digitale” che può essere associato agli esport è il tennistavolo, fondato proprio sulla centralità della coordinazione mano occhio, sulla destrezza e sulla ripetizione rapidissima di movimenti in uno spazio ristretto – un caso che sia lo sport nazionale cinese?
Nelle competizioni digitali, però, non è la forza fisica a incidere sull’esito della gara: non vince chi scarica più potenza dei rivali sulla tastiera, quanto chi sa usare meglio le proprie capacità cognitive. Gli atleti digitali impegnati nei match di League of Legends devono ragionare, calcolare, prendere decisioni rapide e collettive, rivisitando, a distanza di 2300 anni, il detto di Mencio secondo cui coloro che lavorano con il cervello governano, parole che squalificavano le abilità corporee ed esaltavano le virtù intellettuali necessarie a far parte del mandarinato. Nella Cina tecnologica figlia della terza modernizzazione, coloro che usano meglio il cervello vincono.
La seconda evidenza raccolta da Fröbose è che, nei momenti di maggiore stress agonistico, la frequenza cardiaca degli atleti digitali spesso supera la soglia di 180 battiti al minuto e la produzione di cortisolo raggiunge picchi molto elevati, paragonabili a quelli dei piloti di Formula 1 impegnati in gara.
Per questi motivi, gli esport non possono essere accostati agli sport di tiro, che ricercano la stasi e la quiete interiore attraverso la gestione del respiro e la riduzione dei battiti corporei.
Gli atleti digitali possono essere considerati atleti veri e propri, infine, anche per via dell’allenamento ossessivo e monastico al quale sono sottoposti, che richiede molte più ore da dedicare alle esercitazioni rispetto agli sport tradizionali, generando uno stress psicofisico molto elevato.
È questa la ragione alla base della crescente attenzione prestata agli aspetti legati al recupero, all’alimentazione e alla preparazione fisica dei gamer professionisti, al fine di allungarne le carriere, dal momento che la loro brevità ha fin qui impedito la creazione di superstar globali e, quindi, di un vero potere della vittoria digitale.
Lo sviluppo degli esport ci costringe anche a reinventare il senso di uno spettacolo sportivo adattato a una nuova realtà. Nella contesa digitale, il corpo degli atleti scompare dalla visione degli spettatori, i giocatori assumono una maschera digitale, l’interazione e lo scontro con l’avversario sono mediati dal computer, i campi di gara sono sostituiti dai pixel e da ambientazioni grafiche spesso destabilizzanti per lo spettatore comune, abituato alle partite di calcio e ai tradizionali eventi sportivi; in alcuni videogiochi, ad esempio League of Legends, l’esperienza agonistica è inoltre complicata dal fatto che l’avversario da sfidare è rappresentato anche dalla potenza computazionale degli algoritmi.
Nonostante la loro natura digitale, comunque, gli esport non smentiscono la regola codificata negli agoni omerici: la presenza fisica di un pubblico spettatore che assiste alle gare.
Gare e tornei digitali non vivono solo di bit e pixel, ma abbisognano per la loro riuscita spettacolare di arene o stadi in cui “radunare” un pubblico capace di emozionarsi, tifare, incitare e sostenere i propri beniamini. Una verità confermata dalla stessa pandemia, che ha provocato la sospensione e il rinvio di tutte le competizioni principali, o dal video di lancio dell’edizione 2020 dei Mondiali di League of Legends a Shanghai, in cui si vede tutta la città sospendere le proprie attività quotidiane per confluire allo stadio ad ammirare… degli atleti digitali.
Il salto della digitalizzazione è dirompente anche per i telespettatori, per merito degli effetti d’innovazione grafica e visiva che stanno già modificando lo stesso confezionamento televisivo degli sport tradizionali – tendenza che Tencent ha già cominciato a sperimentare nella trasmissione delle partite Nba in Cina, in cui molte soluzioni grafiche sono mutuate da quelle di League of Legends –, e grazie all’affermazione di nuovi canali mediatici, come ad esempio Twitch.
C’è un’ultima novità interessante da analizzare. Nello sviluppo globale degli sport elettronici, i videogiochi “mimetici” di sport tradizionali come il calcio, il basket o la Formula 1, pur avendo un ruolo importante, risultano “esport minori” rispetto alle competizioni ad ambientazione fantasy – oltre a League of Legends, pensiamo al successo di World of Warcraft o Fortnite.
La continua immissione di nuovi videogiochi sul mercato, che ricorda la ricchezza di pratiche sportive offerta dall’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento da cui nacquero gli sport moderni, può, ogni volta, dare vita a una nuova disciplina sportiva.
Una fase di espansione creativa che costituisce un problema per la definizione istituzionale di un mondo ancora privo di una federazione internazionale riconosciuta – e, al momento, è questa la motivazione giuridica alla base del mancato inserimento degli esport nel programma olimpico o dei Giochi asiatici.
Serviranno ancora dei decenni per costruire un pubblico di massa trasversale, non solo giovanile e non solo asiatico; tuttavia, lo sviluppo planetario dell’agonismo digitale apre uno scenario inedito: per quanto ancora la forma prevalente del potere della vittoria sarà legata a una palla da calciare o da ribattere?
da “Il potere della vittoria. Dagli agoni omerici agli sport globali”, di Moris Gasparri (prefazione di Federico Buffa), Salerno editore, 2021, pagine 188, euro 18