«Mi sono semplicemente chiesto: quale sarebbe il mio lavoro alla fine del mondo? Sarei capace di coltivare ortaggi? O anche affilare un’ascia? E poi ho pensato: narratore, io sarò il narratore».
Così è nato “L’Arresto” (La nave di Teseo), ultimo romanzo di Jonathan Lethem – scrittore e insegnante di scrittura creativa – in cui, in un futuro non troppo lontano, il mondo è stato colpito da una calamità misteriosa per cui i mezzi di trasporto e le reti di comunicazione, i computer, gli elettrodomestici, la tecnologia, hanno smesso di funzionare.
Il romanzo è ambientato nel Maine, perché come spiega lo stesso Lethem «fa parte della mia vita e sono felice qui, una persona di città nascosta in bella vista». L’ambientazione è post-apocalittica, crea vaghezza e confusione: «Sono cresciuto dando per scontate sia l’apocalisse che la distopia. George Orwell, Philip K. Dick, Stanley Kubrick e “Ai confini della realtà”. Ho sempre creduto che queste fossero le modalità prevalenti del XX secolo, e ho cercato di viverci dentro come meglio potevo, valorizzando le persone intorno a me».
E così, nell’apocalisse e nella distopia, la modernità va in pausa, il progresso si spezza, come nell’ammutolire digitale che colpisce durante il Super Bowl nell’ultimo romanzo di DeLillo, “Il silenzio” (Einaudi), che Lethem conosce e apprezza: «È uno dei miei grandi maestri. Ho letto ciascuno dei suoi nuovi libri con stupore e deferenza».
È un caso che nell’anno della pandemia in cui l’umanità a iniziato ad accumulare videochiamate, il lavoro è cambiato con lo smart working, le persone hanno cominciato a vivere più all’interno che all’esterno, siano usciti più libri che immaginano la fine della tecnologia? «La pandemia ha amplificato la differenza tra il nostro interno e il nostro esterno e tra il mondo materiale e quello virtuale. Tutti hanno iniziato a fare giardinaggio, a cuocere il pane e a parlare con le persone nella realtà virtuale. Ma tutti questi elementi erano già lì, in attesa».
Tra i mezzi che smettono di funzionare, ci sono anche le armi, tema da sempre di grande attualità negli Stati Uniti; cosa accadrebbe oggi in America se non ci fossero più armi? «C’è una canzone degli XTC che si intitola “Melt the Guns”. Forse è una posizione semplicistica, ma non ho mai pensato che dovesse essere più complicata di così. Le armi sono un disastro e bisognerebbe rinunciarvi».
Altro grande tema di attualità affrontato da Lethem nel suo libro è quello ecologico e della sostenibilità, nonché del ritorno alla terra, infatti nel romanzo Maddy, uno dei personaggi, gestisce una fattoria biologica che permette alla comunità locale di sopravvivere: «Mentre scrivevo – spiega Lethem – pensavo ai veri gesti verso la sostenibilità, la comunità, il baratto e l’autonomia dal capitalismo tecnologico che tanti stanno già attuando, con tanti bei risultati. Allo stesso tempo, la commedia umana persiste: nessuna comunità è esente dai paradossi e dalle assurdità della natura umana. Quindi anche questi si riproducono nell’utopia».
Nel libro gli equilibri sono ulteriormente ribaltati dall’arrivo di una supermacchina, un mezzo a propulsione atomica, che porta a riflettere sul tema del prima e del dopo: se si fa un passo indietro e poi si ha l’opportunità di tornare al punto di partenza, per esempio riguardo alla tecnologia, è un’opportunità per ripartire nel modo giusto o una tentazione per fallire ancora? «Forse è meglio non pensare in termini così assoluti: prima e dopo, successo o fallimento. Tutto sarà parziale, familiare, incompleto, vacillante e umano. Questo è quello che ho cercato di mostrare nel libro», ma “L’Arresto”, ci mostra anche che come esseri umani forse abbiamo perso di vista le cose veramente importanti: «È nella nostra natura inciampare. Per cercare e poi perdere traccia di ciò che stiamo cercando. Per riprenderlo solo in parte. La natura discontinua dell’esperienza convive con la sua qualità duratura, la sensazione che le persone vadano sempre avanti, in qualche modo. Questo è ciò che mi commuove».
Se la tecnologia si ferma, quindi, per le persone la salvezza diventa un ritorno alla vera comunicazione, a un maggiore senso di libertà, al ritrovamento del valore delle differenze che accolgono, invece di essere respinte? «Possibilmente. Non voglio fare promesse. Devi lavorare sodo per apprezzare ciò che apprezzi, anche se si trova proprio di fronte a te».
Se le nostre macchine dovessero guastarsi e la tecnologia smettesse di funzionare, la letteratura potrebbe avere allora un potere salvifico? «Con tutto il rispetto per i nostri meravigliosi dispositivi e le nostre meravigliose modalità di linguaggio e letteratura, non penso che nulla possa aiutare l’umanità tranne l’umanità. Siamo bloccati all’interno di una macchina chiamata “capitalismo”, e dobbiamo lavorare insieme per uscirne».
Lethem in questi anni ha dimostrato di saper mutare generi e registri, mantenendo sempre una qualità letteraria alta abbinata a una complessità e a uno stile sempre innovativo e originale, fino ad arrivare allo scrittore che è oggi: «All’inizio – spiega – ero molto deliberato e astratto. Pensavo di essere uno scrittore duro e concettuale, come J.G. Ballard o Thomas Bernhardt. Ho cercato purezza e chiarezza, come Calvino. Questi sono tutti eroi per me. Ma in realtà il mio lavoro è sempre emerso in modo più impuro, con una sorta di goffaggine umoristica. Accetto sempre di più questo come mio dono».
Un dono che si è trasformato in un libro al tempo stesso ironico e inquietante, musicale e colto. Un libro che non solo invita alla riflessione, ma immerge completamente in essa, con invenzione e divertimento, citazioni e rimandi alla storia letteraria e cinematografica, in cui sono sovvertite con originalità le aspettative di forma e genere, in favore di quella che il Guardian descrive come la «novelization di un fumetto, un libro sul futuro che è in realtà un atto di nostalgia per quando quel futuro e la sua tecnologia apparivano rosei e progressisti».