Dalla follia pirandelliana del big bang a cinque stelle potrebbe venir fuori qualcosa che alla lontana ricorda altre scissioni del passato: da una parte un partito nuovo, governativo e moderato; e un altro più attaccato alle origini (in un caso si chiamò infatti Rifondazione) e più estremista nei toni. Come ha notato l’Opinion, «la frattura (fra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, ndr) è antropologica. Da un lato Conte – ben vestito, pettinato e moderato – dall’altro Grillo, sulfureo, disordinato e sempre pronto alla polemica».
Ne discenderebbero dunque due creature a somiglianza dei loro leader, rivelatisi incapaci di trovare una qualche sintesi come la buona politica suggerirebbe: la Cosa di Giuseppe Conte dovrebbe profilarsi come il partito a vocazione governativa, un partito ministeriale, pulitino, di potere e sottopotere, lesto a stipulare alleanze con chi capita, un partito nuovo, con tutta la vaghezza che l’aggettivo implica.
La Rifondazione grillina sarà invece probabilmente una Cosa legata al settarismo delle origini, basato sulla emotività e alla improvvisazione dell’Elevato dentro una visione mistica del Popolo, nella convinzione che il Popolo abbia bisogno di una valvola di sfogo esistenzial-politica.
Due prospettive diverse. In mezzo ci sono i grandi notabili del Movimento, il Tony Blinken all’amatriciana Luigi Di Maio e il presidente della Camera meno carismatico della storia repubblicana Roberto Fico. Forse ancora fiduciosi in una mediazione che il video di ieri di Grillo con le orecchie basse può forse autorizzare. Sono i grandi indecisi di queste ore.
Conte invece ha già preso il buon triestino, un po’ dolente come la sua città, Stefano Patuanelli, la leader del Quarticciolo Paola Taverna inopinatamente diventata vicepresidente del Senato, e il sacrestano Vito Crimi, insomma un pezzo dell’allegra brigata di ex sanculotti diventati potenti. Con Giuseppe Conte a guidarla verso nuove e ministeriali avventure in nome di non si sa cosa, la pace, la libertà, la democrazia è chi più banalità ha più ne metta, una specie di juke box degli anni Sessanta dove c’erano canzoni che per 50 lire davano musica che non poteva non piacere.
L’avvocato, nella sua vacuità politico-culturale, è l’uomo giusto per questo non-progetto in perfetta continuità con il suo «coniugare conformismo, attitudine al banalmente corretto, pensiero debole, simpatie internazionali ambigue, populismo un po’ sudamericano» (Sofia Ventura).
La Cosa contiana, verde ma non proprio verde, di centrosinistra ma non proprio di centrosinistra, al suo interno democratica ma non proprio democratica, questa mistura di nulla e di niente, è destinata a diventare una roba di palazzo che magari piacerà alla gente che piace, alla Rai, per dire, quando si fanno le nomine chi potrebbe non dirsi contiano? Resta da chiedersi, al di là delle noiosissime polemiche sulle regole, commi, votazioni eccetera, se una leadership incolore come quella di Conte possa competere seriamente per la guida del Paese: già, a parte le truppe cammellate, quante divisioni ha, l’avvocato?
Luigi Di Maio detesta Conte. Per lui però forse può essere una scialuppa per uscire dal magma ribollente agitato dal Comico. Di Maio, ritratto del politico da giovane, è nu’ bravo guaglione che ha imparato in fretta le regole del galleggiamento politico nemmeno fosse un allievo di Lorenzo Natali, Remo Gaspari, Franco Carraro, per dire nomi di grandissimi notabili della Prima Repubblica che nulla aveva il potere di far sudare o di togliere il sorrisetto dalla faccia. E così anche lui, politico abile (ma ministro degli Esteri da bocciare, leggere tra l’altro Carlo Panella), comunque disinvolto a salire e scendere dai mille aerei che prende per andare nella tanto agognata Cina o per qualche inutile missione nei Balcani, ecco Di Maio potrebbe essere al tempo stesso un possibile Mazzarino del contismo come un consigliere del Comico.
È un personaggio rimasto col gilet giallo in mano prima di essere sbalzato sulla poltrona di Emilio Visconti Venosta, Carlo Sforza, Aldo Moro, un totus politicus come diceva Benedetto Croce di Palmiro Togliatti ma in una versione per bambini dell’asilo buono per tutte le stagioni.
Di Maio è il riferimento politico della maggior parte dei parlamentari del fu Movimento 5 stelle, quelle anime morte che vagano in un cimitero sotto la luna, come scriveva George Bernanos, cercando una porta d’uscita sperando appunto che Giggino se li carichi sulle spalle, almeno gli garantisca uno stipendio: lui è il loro vero ammortizzatore sociale.
È il ministro degli Esteri che dovrà spiegare all’avvocato che il governo Draghi non va lambito dal bradisismo grillesco, almeno fingesse di dare una mano e la stessa cosa dovrebbe fare con Grillo, basta che lui resti alla Farnesina. Di lui malgrado gli evidenti rovesci Enrico Letta si fida molto e anche Dario Franceschini e i politici di professione del Partito democratico, e pure Silvio Berlusconi che disprezzava Grillo e Conte nemmeno lo calcolava, una volta lo lodò.
Che farà, lui, e che farà l’onesto Fico? Se valutassero che in fondo Grillo ha ancora una potenzialità elettorale degna di nota potrebbero fare i cavalli di razza del “nuovo” Movimento.
Una specie di Rifondazione grillina che odierà la Cosa contiana – un classico delle scissioni – e che farà appello ai vecchi miti del casaleggismo della prima ora, i meet up e le scie chimiche, la predilezione per immaginose previsioni sull’avvenire della Terra, un grillismo duro e puro aizzato dal Mangiafuoco di Sant’Ilario che ancora ammalia l’indimenticabile Danilo Toninelli e la rissosa Carla Ruocco magari, come detto, temperato dal realismo di Giggino.
Ma forse quel grillismo ormai ha perso forza nella Rete e in tv, si è giocato pure l’ex apostolo Marco Travaglio, uno Charles Maurras dei poveri che al posto della Francia degli anni Venti del secolo scorso pretendeva di sovvertire la politica italiana e invece si ritrova nell’anticamera di un avvocato foggiano a sfogliare il suo giornale in attesa di capire cosa scrivere per l’indomani.
Questa Rifondazione grillina peraltro non è un pericolo per il governo, Beppone non ha interesse a farlo cadere ma davvero non si capisce più per che cosa abbia interesse, e in fondo certo il suo è un destino cinico e baro: voleva fare un Movimento di massa e c’era pure riuscito, ed è finito con una setta come il Kurtz di Conrad. In questa assurda partita a scacchi non si sa chi vince e chi perde perché tutte le regole della razionalità politica con cui si misurano i passaggi della storia sono saltate e il rischio vero è che le schegge possano impazzire e per questa via rendere ancora più anomalo il quadro politico italiano.
E illanguidisce così, nel rimbombo dei tuoni, un triste tramonto di una forza politica che ha avuto per qualche tempo il Paese in mano, e già sembra tanto tempo fa.