Come si decide chi tifare? Sono l’ultima a poterlo spiegare, non avendo talmente mai tifato nessuno che negli anni Ottanta mi piacevano sia gli Spandau Ballet sia i Duran Duran (negli anni Ottanta esistevano due sessi: lo sport lo tifavano i maschi, noialtre tifavamo i cantanti).
Per quel che mi è stato raccontato, spesso c’entra la tradizione familiare: tifi la tal squadra perché tuo padre, tuo nonno, tuo fratello maggiore. Tranne quando entra nell’equazione il valore più scemo dopo la verginità: il patriottismo.
Il patriottismo è la scienza dell’offendersi se qualcuno, su una pizza che non devi mangiare tu, mette l’ananas; giacché quella pizza non è la cena d’un altro: è l’appartenenza tua.
La pizza si mangia senza variazioni barbare e, se gioca l’Italia, si tifa l’Italia. Anche se Zidane è più figo di Materazzi, sì. A meno che non si voglia passare per stucchevoli bastian contrari. Ieri Julie Burchill, giornalista inglese e bastian contraria da prima che lo fosse chiunque, continuava a postare su Facebook il proprio tifo per l’Italia calcistica.
Qui, invece, si sdilinquiva per Berrettini gente che non aveva chiaramente mai guardato una partita di tennis (il patriottismo è la scienza per cui, se un connazionale fa bella figura in uno sport a noi ignoto, ci appassioniamo istantaneamente a quello sport); gente che continuava a chiedere come si contassero i punti e quanto durasse (ma la borghesia, nelle città che non sono Bologna, non mette racchette nelle culle dei propri piccini? Che decadenza, la realtà).
Ma Berrettini è più “nostro” di Djokovic? Non sto parlando tanto della residenza fiscale di Berrettini (a Montecarlo, ma gli italiani tradizionalmente tifano per chi paga meno tasse possibili: è una specie di ananas sulla pizza, un patriottismo a modo nostro), quanto del fatto che io Berrettini fino a ieri non l’avevo mai visto, mentre Djokovic è stato ospite a Sanremo: più presepio nazionale di così.
Ho passato la finale di Wimbledon a chiedermi chi stesse tifando Fiorello, che aveva portato Djokovic a Sanremo. Non lo sapremo mai, non sarebbe così scellerato da confessare l’inconfessabile: il tifo non in base alla nazionalità ma a chi t’è più simpatico (o ti piace di più come gioca).
Il sogno di un ragazzo italiano, quel ritratto morandiano scritto da Jovanotti in un solo verso, non va infranto, che si tratti di tennis, di calcio, di cinema: ieri Morandi cantava “L’allegria” come accompagnamento a Cannes di Nanni Moretti, che come ragazzo italiano è tardivo (ma meno di Gianni Morandi stesso) ma forse perpetuo (quanto Gianni Morandi stesso).
Chissà se il Moretti del 1993, quello che faceva dire al suo io narrante «non credo nella maggioranza delle persone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza», prevedeva il sé stesso del 2021, quello che si trovava in concorso a Cannes la sera in cui anche i più cinefili pensavano alla finale degli Europei tra Inghilterra e Italia, mica a “Tre piani”.
O forse sospirare su “Tre piani” (che qui non vedremo fino a settembre), leggere le recensioni dall’anteprima di Cannes, cercare su Instagram tracce dell’italianità per cui tifare, quella di minoranza, forse quello era il bastiancontrarismo giusto, l’attività dei felici pochi, ieri sera: invece del calcio che c’è, un film che ci sarà.
Si è molto detto che la principale differenza tra l’Inghilterra e l’Italia è la scaramanzia. Loro che da giorni cianciavano della coppa europea che, come l’anima mia, stava tornando a casa sua: «it’s coming home» si era sentito talmente tanto che, sugli spalti di Wimbledon, un tifoso di Berrettini aveva il cartello «it’s coming Rome». Noi che invece facevamo finta di niente, superstiziosi, pieni di rituali (io, non avendo mai visto una partita degli Europei, sono stata minacciata di cose turpi se avessi osato cominciare ieri sera; ho ovviamente chiesto un pagamento in contanti per non farlo, tacendo circa la mia determinazione a non farlo comunque).
Ma in realtà erano giorni che anche gli italiani si lasciavano sedurre dal simbolico. Non era solo una partita di calcio: era un tassello della rinascita, dei nuovi noi, del Paese che potremmo essere se solo non fossimo quel che siamo.
Mi viene in mente un tweet di Antonio Polito, ma ne ho visti altri, ricopio il suo per comodità. È di venerdì scorso: «Wembley, Wimbledon, Måneskin, Draghi, ma che ci succede?».
Si poteva rispondere in molti modi: ci sono gli immancabili tifosi avversari che commentano il tweet dicendo che Draghi piacerà a te, venduto; ci sono io che non ho detto niente ma ho pensato a quella volta che da ragazzina chiesi all’anagrafe come si faceva a diventare apolidi, avendo probabilmente capito che mi sarei trovata cittadina d’un Paese rappresentato dai Måneskin; ci sono quelli che pronosticano grandi vittorie senz’alcuna scaramanzia, come segno d’una ripresa del Paese, d’un vento che sta cambiando (slogan che ha portato benissimo).
Non si poteva ancora rispondere, non avendo sentito il Berrettini postpartita, che «è stato più bravo di me a tenere a bada i nervi» è un’ottima lapide sulle assurde ciance circa la fragilità psichica di cui Naomi Osaka ammantò la propria non voglia di parlare coi giornalisti sportivi; ma soprattutto è la fine di quel carattere nazionale sintetizzato da Nanni Moretti (sempre lui) nel 1998, quando diceva al figlio che i tennisti italiani «perdono sempre per colpa dell’arbitro, del vento, della sfortuna».
Nessuno, in risposta a quel tweet o in altra circostanza, s’azzarda a dire che forse non ci succede niente, forse alcune partite le vinci e alcune le perdi, forse non tutto è simbolico, forse non tutto è tifoseria, forse se dici che ti piace il bel gioco e vinca il migliore sei contromano in autostrada ma un grande romanziere saprebbe convincerci che sei l’unico sano di mente.
Nessuno, e certo non io, osa dire che buona notizia sia se non diamo più la colpa all’arbitro, noi e le nostre, morettiane, «spallucce vittimiste».