Ha vinto TreviLe due vite che servirebbero per raccontare quanto gli scrittori odiano il Premio Strega

Il miglior romanzo dell’anno è un saggio, ma va bene così perché pensate che avevano preparato una svastica, una svastica buona, per Edith Bruck. In ogni caso, questa è la manifestazione che chiunque la vinca si parla comunque di Teresa Ciabatti, costretta ad andare a Benevento per sapere che non sarebbe entrata nella cinquina: urge emendamento alla Zan per aggravante di trasferta in luogo improponibile e annessa umiliazione (per non parlare dell’obbligo di bevuta di liquorino giallo)

LaPresse

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega per contribuire all’abbattimento del confine tra narrativa di finzione e racconti di realtà: Due vite, il libro di Emanuele Trevi che ha vinto ieri sera il principale premio italiano per romanzi, è da cinque mesi nella classifica della saggistica. 

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega perché la fascetta rossa attorno al libro moltiplica le vendite. 

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega perché è il modo più rapido di fare dei propri libri quella formula magica con cui Hemingway definiva i suoi: lodati dai colti, letti dagli incolti. 

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega per vincerlo e subito dopo, come ha detto Francesco Piccolo ieri sera in diretta, dire a sé stessi che a ’sto premio non devono pensarci mai più (la versione da romanziere di «e anche questo Natale ce lo semo levato dalle palle»). 

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega perché per fottertene dello Strega devi essere Arbasino, e quasi nessuno vuole essere Arbasino, e quasi tutti vogliono essere la Morante. 

Gli scrittori italiani vogliono andare allo Strega nonostante il caldo devastante in quella conca che è valle Giulia, nonostante le vendite non si moltiplichino più come un tempo, nonostante l’attenzione stremante che fa di te per qualche mese più un concorrente di reality che un romanziere (lo Strega è quel premio che, chiunque lo vinca, il centro della scena se lo prende comunque Teresa Ciabatti). 

Io, che più dell’attenzione detesto solo il caldo, andrei allo Strega solo per scrivere un grande romanzo sui mesi in cui sei candidata allo Strega, una tournée della quale dettagli meravigliosi vengono ogni anno raccontati privatamente e anche pubblicamente, ma mai raccolti e catalogati come meriterebbero. 

Quando lo vinse, Francesco Piccolo spiegò che per mesi, quando si trovava in giro con l’addetta alla raccolta di voti Einaudi (ogni editore ha una persona dedita a raccogliere i voti per lo Strega, quella di Einaudi è particolarmente leggendaria), le chiedeva se il tizio che si stava avvicinando fosse un amico della domenica (l’orrendo nome dei votanti al premio); se lei rispondeva di no, lui diceva che allora potevano andarsene senza salutarlo. Non è un personaggio che vorreste vedere in un romanzo, uno cui frega solo dei voti che lo eleggano più gran romanziere italiano? Se solo Ugo Tognazzi fosse vivo, avremmo anche già il casting del film. 

(Ieri sera, presentando la premiazione, Geppi Cucciari ha detto che i votanti dello Strega, come certe zitelle smaniose, «dicono sì a tutti»: ci terranno a essere salutati, porelli). 

Ogni volta che mi raccontano un dettaglio dei mesi che precedono la premiazione, trovo che abbia quella qualità esilarante e struggente che hanno le storie scritte bene. 

Ci sono le escursioni a Benevento: il liquore Strega viene da lì, e lì tocca andare in pellegrinaggio a farsi selezionare. Si è svolta lì la serata che ha ridotto la dozzina a cinquina, ed è il dettaglio che ci ha reso cara la protagonista di quest’anno: pazienza se Teresa Ciabatti non è entrata in cinquina, ma per dirglielo l’hanno fatta andare a Benevento, ci sarà pure un’aggravante nella Zan per trasferta in luogo improponibile e annessa umiliazione. 

C’è il problema del liquore giallo: ti tocca berlo davanti a tutti, quando ti fanno salire sul palco da vincitore, ci sono centinaia di persone che ti fissano, le telecamere, mica puoi sputarlo di nascosto come le medicine nei film ambientati nei manicomi. È un incentivo a desiderare la sconfitta: chissà se Antonio Scurati, quando due anni fa ha finalmente vinto, ha guardato il colore del liquore e ha rimpianto le edizioni in cui era arrivato secondo. Dice la leggenda che un anno vinse un astemio e, ansioso di non offendere lo sponsor, invece di rifiutare la bottiglia se la scolò, avendo poco dopo un malore. 

E poi c’è la gita al museo etrusco dei finalisti, museo in cima a una scalinata la cui salita mercoledì si è deciso di risparmiare alla novantenne Edith Bruck, finalista come miglior romanzo anche lei con un libro che si trova nelle classifiche di saggistica. Ogni anno l’organizzazione dello Strega omaggia i finalisti con l’abbinamento ideale d’ognuno dei cinque libri a un reperto etrusco. Alla signora Bruck, autrice di Il pane perduto, è stato risparmiato l’improvviso gelo, nel bollore del pomeriggio romano, sceso tra i presenti quando la garrula organizzazione dello Strega ha spiegato che al suo memoir sull’essere sopravvissuta ad Auschwitz era stato abbinato quel vaso etrusco lì, quello decorato con svastiche (ma pare fossero svastiche bonarie, allegre, inclinate diversamente da quelle del Reich: svastiche simpatiche, orsù). 

Vorrei, per l’anno prossimo, una premiazione condotta dalla signora Bruck assieme a Geppi Cucciari. La quale ieri sera si districava tra testi imprecisi forniti da autori attentissimi («Hai 26 anni» «Non è vero, ne ho 33»: la finalista Giulia Caminito completa la propria risposta mentre la regia inquadra Cucciari che lascia cascare la testa come una che non si capaciti che Roma sia Roma); interviste ad assessori e sponsor che da Sanremo in giù affossano tutta la tv italiana; e confessioni scomode: se taggate Emanuele Trevi su Instagram, lui intanto vi mette un cuore; se poi si accorge che l’avete stroncato, il cuore non lo leva. 

(Instagram è evidentemente egemone sull’immaginario dei romanzieri: Donatella Di Pietrantonio, aspirante influencer, si fa inquadrare la mano con su scritto «DDL Zan»: senso del ridicolo l’è morto). 

La coppia Cucciari-Bruck, dicevo. Per tutta la serata, Geppi ostentava una disperata allegria interagendo con salme al cui confronto il pubblico nel teatro di Sanremo è vivace; con gente così smaniosa di farci capire che la tv non è cosa sua che, dopo ogni domanda, fissava l’intervistatrice con l’aria di chi non ha idea che a una sua domanda debba seguire una propria risposta. 

L’unico lampo di meraviglia è stato, appunto, con Edith Bruck. A proposito dello Strega Giovani che aveva già vinto, Geppi le ha chiesto «Quanto l’ha stupita?», e la Bruck ha risposto «Non l’ho subita: l’ho vinta», e io ho capito che dallo Strega non avrei potuto aspettarmi un dialogo più brillante. Neanche se mi fossi decisa a leggere i libri candidati, intendo.

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